Da The New York Times del 12/10/2004

I kamikaze di distruzione di massa

L´intelligence ha ignorato l´arma più temibile nata all´ombra di Saddam

Negli ultimi sedici mesi 125 attacchi suicidi contro le truppe americane in Iraq
A differenza dei militanti di Hamas non girano video per accomiatarsi dalla vita
Contro gli sciiti il raìs aveva consentito una massiccia iniezione di wahabismo

di Thomas L. Friedman

NEW YORK - La settimana scorsa si è dato forte rilievo al fallimento dei servizi segreti dell´amministrazione Bush in Iraq. Saddam Hussein non aveva "Wmd" (Weapons of mass destruction) armi di distruzione di massa. Si deve però sottolineare un altro fiasco dei servizi segreti, altrettanto madornale, uno smacco di cui tuttora subiamo le terribili conseguenze. Sto parlando della nostra totale ignoranza al riguardo dei "Pmd" iracheni - gli individui di distruzione di massa (People of mass destruction) - degli attentatori suicidi e dell´ambiente da cui hanno origine. La verità è che il fallimento dei Servizi in Iraq non riguarda soltanto gli agenti chimici che Saddam miscelava nelle sue cantine, ma ha piuttosto a che vedere con le emozioni che faceva fermentare nella società irachena.

Iniziamo da una semplice constatazione: negli ultimi 16 mesi ci sono stati 125 attacchi suicidi contro le truppe americane in Iraq, compiuti quasi sempre da musulmani sunniti. Questo dato deve farci riflettere: nel mondo musulmano e in Iraq deve esserci una linea di rifornimento di attentatori suicidi che è in grado di allettare nuove reclute, di metterle in contatto con chi fabbrica dispositivi esplosivi per poi dispiegarle strategicamente e pressoché quotidianamente contro bersagli americani e iracheni.

Ciò che è ancora più sconcertante in relazione a questi attentatori suicidi è che diversamente dagli accoliti di Hamas in Israele che girano video di se stessi mentre spiegano le loro ragioni e si accomiatano dalla loro famiglia, tutti gli attentatori in Iraq si fanno esplodere senza neppure comunicarci, in pratica, come si chiamino. Noi non sappiamo pertanto in che modo siano scelti, addestrati, indottrinati, armati e inviati contro il loro bersaglio. Ciò che sappiamo è che gli attentatori suicidi hanno ucciso e mutilato centinaia di iracheni, molti dei quali erano in procinto di entrare nella polizia e nell´esercito, e che così facendo hanno fatto molto di più per ostacolare gli sforzi americani miranti a ricostruire l´Iraq di qualsiasi altro fattore. Noi siamo dunque schierati contro un nemico che non conosciamo e che non vediamo neppure, ma che sta compromettendo l´intera nostra missione.

Questo genere di network è molto difficile da individuare, specialmente se si tiene conto del sostegno di cui gode presso molti sunniti, ma la nostra ignoranza al riguardo è soltanto una piccola parte della più generale mancanza di comprensione dei cambiamenti occorsi nell´ambito della società irachena. I 35 anni di malgoverno di Saddam, che includono altresì il decennio delle sanzioni statunitensi, avevano decimato le infrastrutture materiali e sociali. I giovani uomini armati dal volto coperto che oggi mozzano le teste dei loro prigionieri sono cresciuti in questo vuoto, colmato soltanto dalla religione: in parte instillata da Saddam per le sue ragioni personali, in parte riversatasi in Iraq da oltre confine, essenzialmente dall´Arabia Saudita, dalla Siria e dall´Iran. Negli ultimi decenni c´è stato infatti «un impennarsi dell´identità islamica, non soltanto in Iraq, ma in tutto il mondo arabo», spiega Yitzhak Nakash, esperto di islam sciita presso la Brandeis University e autore del libro di prossima pubblicazione intitolato "Sciismo e nazionalismo nel mondo arabo". «Noi lo abbiamo decisamente trascurato. Anzi, lo abbiamo negato» prosegue. Ma Saddam invece ne era pienamente consapevole. Per quanto riguarda gli sciiti Saddam consentì al padre di Moqtada al Sadr di guidare la preghiera del venerdì nella speranza che così facendo assorbisse tutto lo zelo religioso degli sciiti e ne distogliesse l´attenzione dal regime. Quando invece Sadr diresse quell´energia religiosa contro Saddam, quest´ultimo nel ?99 lo fece liquidare. Con i sunniti Saddam fu preso dalla frenesia di costruire moschee per rimarcare la sua legittimità, e per controbilanciare lo sciismo tollerò un´infusione di islam wahabita proveniente dall´Arabia Saudita. Quando gli Usa hanno invaso l´Iraq, afferma Nakash, «l´Islam era ormai una forza potente. L´Iraq non era più un paese essenzialmente laico, che attendeva di accogliere a braccia aperte l´America, come ricordavano molti degli esuli iracheni».

Tutto ciò significa che in Iraq tutto è perduto? Non necessariamente, sostiene Nakash. Tutto questo significa però che dobbiamo cambiare strategia e ridurre le aspettative sul breve periodo. Gli sciiti e i curdi, che costituiscono l´80 per cento della popolazione irachena, vogliono ancora un Iraq democratico e questo è già motivo di speranza. Tuttavia, la prima apparizione di un Iraq democratico quasi sicuramente sarà influenzata - se non addirittura dominata - da figure religiose di spicco. Non passeremo da Saddam a Jefferson senza passare prima da Sistani, l´Ayatollah con il quale possiamo collaborare. L´unica cosa è sperare che la strada sia breve.

Ciò che ora è quanto mai essenziale da parte americana, conclude Nakash, è «decidere di venire a patti con la realtà sul campo», ovvero accettare il concetto che non tutti i religiosi musulmani sono uguali, e coinvolgere gli islamisti moderati nella soluzione per l´Iraq. Ovviamente, ci occorre una più ampia strategia per l´Iraq e il Medio Oriente, una strategia che offra agli islamisti l´opportunità di dimostrare che una democrazia islamica non soltanto può fermare gli attentatori suicidi, ma altresì farsi valida promotrice di una soluzione tra Islam e Occidente.
Annotazioni − Pubblicato il 12/10/2004 su La Repubblica. Traduzione di Anna Bissanti

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