Da La Stampa del 07/10/2004
Le elezioni in Afghanistan
Teste tagliate e teste contate
di Pierluigi Battista
Mentre imperversano le gesta oscene dei tagliatori di teste, dovrebbe essere un motivo di conforto che tra due giorni, in Afghanistan, le teste saranno contate. Non ci sono illusioni su una pacificazione duratura. I «signori della guerra» sono in agguato attorno a Kabul. Le procedure elettorali appaiono ancora abborracciate e precarie. Ma c'è qualcosa di commovente nella pasticciata avventura del rito democratico afghano, nei dieci milioni di uomini e donne che fanno la fila per registrarsi negli elenchi elettorali, nei poveri comizi in cui migliaia di persone sfidano la protervia terroristica, nelle immagini dei candidati che campeggiano sui manifestini di propaganda per farsi conoscere dai tanti analfabeti che inseguono la chimera di contare e di contarsi, mentre esplodono le bombe e crepitano i Kalashnikov.
L'elogio della democrazia non ha molto appeal nei Paesi in cui la routine democratica ha smorzato la passione della scelta, in cui tutto appare ripetitivo, scolorito, poco entusiasmante, malinconicamente ovvio e scontato. Le democrazie mature, e «La Stampa» ha ospitato un lucido intervento di Giovanni Sartori che della democrazia è uno dei teorici più accreditati, riflettono sui limiti dei processi democratici, sulle loro degenerazioni e sul loro svuotamento. Ma nel fervore con cui i più di 800 mila profughi afghani hanno deciso, malgrado tutto, di partecipare alla liturgia democratica affiora il ricordo di quando l'Italia uscita dalla dittatura balbettava i primi rudimenti dell'alfabetizzazione democratica, quando c'erano ancora tante armi in giro e gli italiani dovevano riprendere l'abitudine di scegliere la propria rappresentanza con riti dimenticati o vilipesi come risibili «ludi cartacei».
E se anche è sacrosanto sottolineare l'aspetto velleitario e dottrinario della «esportazione» della democrazia sulle baionette, se è giusto interrogarsi sulla compatibilità tra Islam e democrazia (ma gli esempi positivi di Indonesia e Turchia non dovrebbero alimentare un pessimismo assoluto), se anche i professionisti del terrore giocano a far fallire l'esperimento democratico dopo la buia notte del dominio talebano, è giusto anche che l'Occidente non guardi con cinica supponenza alla signora Masuda Jalal che si presenta alle elezioni presidenziali nell'Afghanistan femminile già umiliato dall'obbligo del burqa. Ed è giusto che si preoccupi della problematica riuscita delle prossime elezioni in Iraq (magari con l'aiuto di un presidio Nato, come nella proposta del «Foglio» condivisa da Fassino). Anche per capire che il rito democratico ha un suo significato nobile che nessuna sazietà di sé esibita dalle mature democrazie dell'Occidente riuscirà a cancellare.
L'elogio della democrazia non ha molto appeal nei Paesi in cui la routine democratica ha smorzato la passione della scelta, in cui tutto appare ripetitivo, scolorito, poco entusiasmante, malinconicamente ovvio e scontato. Le democrazie mature, e «La Stampa» ha ospitato un lucido intervento di Giovanni Sartori che della democrazia è uno dei teorici più accreditati, riflettono sui limiti dei processi democratici, sulle loro degenerazioni e sul loro svuotamento. Ma nel fervore con cui i più di 800 mila profughi afghani hanno deciso, malgrado tutto, di partecipare alla liturgia democratica affiora il ricordo di quando l'Italia uscita dalla dittatura balbettava i primi rudimenti dell'alfabetizzazione democratica, quando c'erano ancora tante armi in giro e gli italiani dovevano riprendere l'abitudine di scegliere la propria rappresentanza con riti dimenticati o vilipesi come risibili «ludi cartacei».
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