Da La Stampa del 08/10/2004

L’evoluzione della Chiesa e della societa’ italiana di fronte a un tema sempre scottante

Se i «promessi sposi» sono due omosessuali

Dalla beffa a don Marco di trent’anni fa fino all’accettazione da parte della maggioranza dell’opinione pubblica di oggi

di Filippo Ceccarelli

Un giorno di primavera dei primi anni Settanta. Due uomini bussano alla canonica della parrocchia del Sacro Cuore a Lavello, in provincia di Potenza, nel cuore della Basilicata. Cercano il parroco, don Marco Bisceglia».

I «promessi sposi» - così li definisce Piergiorgio Paterlini nell’ultimo capitolo del suo «Matrimoni», appena uscito per Einaudi (pagine 194, 13,50 euro) - sono due giovani e al parroco raccontano con sofferenza e passione di essere omosessuali. E cattolici. In quanto cattolici chiedono a don Marco, animatore della chiesa del dissenso, che si è dimostrato così anticonformista e coraggioso, di essere uniti in matrimonio. «Un matrimonio di coscienza», un po’ come quello cui si appella Renzo nel romanzo del Manzoni, quando entra di soppiatto nella canonica di don Abbondio.

Bene: a differenza di quest’ultimo, don Marco dice sì. «Non scappa - prosegue il racconto - non chiama disperatamente Perpetua. Nella canonica della parrocchia cattolica del Sacro Cuore a Lavello, provincia di Potenza, si celebra il primo matrimonio religioso fra due omosessuali della storia d’Italia, e forse non solo d’Italia. “Questo è un sacramento” dichiara alla fine, letteralmente, don Marco».

Ma in realtà è una beffa crudele, il matrimonio di Lavello, anzi una trappola politica, forse anche un sacrilegio. O magari, vista con gli occhi di oggi, è «solo» un peccato, come direbbe il commissario Buttiglione. Un peccato, ma non un reato. Comunque ai danni di un povero prete e di quella che certo allora non si chiamava - come oggi, con orgoglio - la comunità gay. Non si chiamava proprio. Oppure, al limite della sua minacciosa innominabilità, era Sodoma, o l’«altra sponda». In quegli anni gli omosessuali, infatti, i pederasti, i «capovolti», si nascondevano. Anche i più ricchi e famosi fra loro, gli artisti, gli intellettuali, i politici, vivevano questa loro dannazione, malattia o vizio che fosse, con estrema vergogna e terribili sensi colpa.

Ecco. Quando i due finti «promessi sposi» bussano alla porta di don Marco recando con sè un voluminoso borsello con dentro un registratore, l’omosessualità è un peccato «impuro e contro natura», del peggior genere catechistico, tale da «gridare vendetta al cospetto di Dio». Dunque: inferno garantito, in omnia saecula seculorum. Mentre per quanto riguarda l’aldiqua, e più esattamente nell’Italia dei primi giornaletti porno e dell’educazione sessuale in busta chiusa, per gli omosessuali il clima non è poi così diverso da quello, di autentica oppressione, che si respirava negli anni cinquanta o sessanta; e basterà ricordare, in cupa sequenza, le schedature e i ricatti del Sifar, il massacro giudiziario di Aldo Braibanti (difeso dal solo Pannella), le persecuzioni di Pasolini (già radiato dal pci), le allusioni e le insinuazioni, anche in forma romanzata, con nomi in cifra, ma riconoscibili, di Mino Pecorelli sui potenti democristiani, Colombo in primis.

E insomma. I due di Lavello non sono affatto omosessuali. Si chiamano Franco Jappelli e Bartolomeo Baldi, hanno entrambi 27 anni e lavorano come giornalisti in un settimanale di destra, Il Borghese. Registrano tutto, colloquio e cerimonia matrimoniale, e tutto pubblicano sul loro giornale. Lo scandalo scuote per alcuni giorni il costume non solo religioso di quell’Italia lì. A trent’anni di distanza, senza alcun risentimento, Paterlini (che è un uomo mite e uno scrittore meticoloso, e che nel suo libro si è permesso di raccontare, anzi di far raccontare altre dieci vere e belle unioni d’amore e di convivenza fra persone dello stesso sesso), ha contattato Jappelli, oggi valente e anche simpatico giornalista del Secolo d’Italia. Questi gli ha raccontato che, dopo il servizio, il vescovo di Potenza telefonò per ringraziarli: l’avevano infatti aiutato a togliersi dai piedi un prete sovversivo, «comunista». Era quello dell’impegno sociale lo scandalo da recidere, evidentemente, non l’omosessualità.

Chissà se Buttiglione si ricorda di quella storia attorno alla quale con caotico, ma profetico svolazzo si libravano lotte agrarie, media invasivi, preti del dissenso, e speranze, ingenuità, goliardia. In ogni caso non gli farebbe male leggere i «Matrimoni» di Paterlini: tanto più dopo la disputa con cui è stato accolto a Bruxelles, e ancora di più dopo aver riconosciuto una qualche forma di discriminazione per il suo essere cattolico, e come tale contrario a quel tipo di matrimoni, ma ormai in minoranza (il 51 per cento sarebbe favorevole, secondo un’indagine Eurispes del 2003).

Non gli si farà qui notare come la Fede poco si accordi con il vittimismo. Perché poi forse oggi c’è davvero una lobby gay, anche se come al solito basta intendersi sulla parola «lobby». Ci sarà pure, anzi c’è senz’altro, questa lobby, questa sensibilità diffusa, pure a livello economico, sia in Europa che in Italia, dove quest’anno l’Arci Gay ha raccolto 350 mila nuove adesioni e i ds hanno presentato una proposta di legge per il pacs e stampato i primi manifesti. Si vedono due donne sotto il testo: «Carla e Gina condividono casa e sentimenti. Oggi vorrebbero condividere dei diritti».

No, non è più l’Italia omofoba di don Marco e del suo vescovo. Senza essere un’Italia omofila, nel 2000, in occasione del trionfale e giubilare Gay Pride un ministro, Pecoraro Scanio, ha dichiarato la sua bisessualità. Un verde, d’accordo. Però è con il centrodestra che si è presentato alle elezioni Alessandro Cecchi Paone, pure introducendo la categoria dell’«omoaffettività», con tanto di riferimenti culturali, Achille e Patroclo e così via. E mesi fa le porte di Montecitorio si sono spalancate - in sede di indagine conoscitiva per la legge sulla prostituzione - anche a Marcella Di Folco, leader del Movimento d’Identità Transessuale, per l’occasione presentatasi rasata e biondissima, come documentano alcune foto scattate nel salone della Lupa, sotto l’animale di bronzo.

Ma diamine: la si capisce meglio, questa lobby, si capiscono meglio i suoi desideri di normalità, conoscendo gli angosciosi soprusi patiti senza alcuna protezione. Trappole e scherzi, come si è visto, nel migliore dei casi. Scherzi da prete, peraltro, come utilmente dimostra Paterlini. Perché cacciato dalla Chiesa, don Marco Bisceglia, il prete che aveva sposato i finti omosessuali si scopre lui per davvero, omosessuale.

E allora lotta contro quel suo orientamento, non lo pratica, soffre, attraversa le lacerazioni del suo corpo e della sua coscienza, le accetta, si accetta, si dichiara gay, a sorpresa, «davanti a 500 persone intente a tutt’altro». Poi scompare, per anni: «Si scoprirà solo più tardi che si è ritirato in uno dei famosi “Sassi” di Matera, a riflettere, a compiere in solitudine la sua traversata nel deserto». Fonda la prima rete di protezione in Sicilia, dopo un duplice suicidio, a Giarre. Primi anni ottanta. Poi Marco, oramai non più don, è a Roma: «Non è difficile incontrarlo mentre mangia un tramezzino seduto alla fontana di piazza del Polo - è una delle ultime immagini di «Matrimoni» - A sessantacinque anni ha appena fondato l’Arcigay nazionale». Muore nel 2001. E’ sepolto a Lavello, dove l’anno scorso ha voluto ricordarlo una delegazione del Gay Pride. E non per farsi tornare tutti i conti, ma da tempo era ritornato all’ovile della sua Chiesa.

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