Da La Stampa del 28/09/2004

Bush contro Bush

di Lucia Annunziata

In apparenza, si tratta di una forte dialettica. Per la prima volta emergono da dentro l’Amministrazione Repubblicana segnali di divergenze di opinioni. Pochi giorni fa il ministro della Difesa Donald Rumsfeld, convinto sostenitore della guerra, ha dichiarato che «non è detto che si resti in Iraq fino alla pacificazione». Pessimistici giudizi sono diffusi fra i militari sul campo: vale per tutti l’opinione del famoso generale americano di origine araba John Abizaid, secondo il quale «ci sarà un aumento di violenza a cavallo del voto». Infine Colin Powell, nota colomba, torna a prendere l’iniziativa e sostiene che «le cose in Iraq stanno peggiorando», cioè l’esatto contrario di quell’«in Iraq stiamo vincendo» che George W. Bush ripete in tutte le città d’America.

Da dove nascono queste differenze: dal trauma politico della guerra, da un timore elettorale? E soprattutto, dove puntano? Insomma, si comincia a pensare a scenari di crisi. Ma un’occhiata più da vicino suggerisce piuttosto una brillante mossa pre-elettorale: l’adozione di una sorta di doppio binario, tale da coprire un delicato passaggio di oggi con un occhio al dopo.

Tutto inizia con gli ottimi sondaggi a favore del Presidente. A fronte di questi numeri, nell’Amministrazione si comincia già a pensare al futuro. Rimane tuttavia un particolare problema con la guerra: sempre secondo i sondaggi, infatti, il conflitto in sé non è un problema per gli elettori di Bush; ma lo è il dubbio sul modo come è gestito. Come già successo nei mesi scorsi a proposito delle «bugie» sulle armi di distruzione di massa, e delle polemiche sulla mancata prevenzione dell’attacco dell’11 settembre, Bush ancora oggi ha un fianco esposto sulla «cattiva conduzione» della guerra. Ed effettivamente il suo messaggio convintamene ottimistico non regge di fronte alle quotidiane notizie dall’Iraq.

L’Amministrazione si trova così oggi, a solo un mese dalle elezioni, a dover insieme rassicurare una parte dell’elettorato che tutto va bene, mentre pensa di avviare un cambiamento di corso.

Che il prossimo mandato dovrà essere gestito diversamente è opinione diffusa nella Amministrazione attuale. Segni di cambiamento sono visibili fin da ora: i neocon sono in declino, il fronte delle issues di coscienza è frantumato (dall’aborto, ai matrimoni gay - si veda la differenza in merito fra Cheney e Bush - alla fecondazione, i Repubblicani hanno articolato le loro posizioni) e si sta ripensando alle articolazioni della politica estera. Proprio Powell, qualche mese fa, in sede Nato, a Istanbul, ha rilanciato il multilateralismo. La consapevolezza che un nuovo mandato sarà differente dal primo è tale che a Washington è stata coniata una frase per questa coda di campagna: «Bush contro Bush».

E’ possibile così vedere oggi al lavoro una nuova macchina politica, che già guarda al futuro: mentre Bush gira l’America profonda e arringa l’Assemblea delle Nazioni Unite marciando al suono della retorica, dall’altra parte i suoi migliori uomini mandano segnali ad altri settori politici, interni e internazionali. Non a caso le dichiarazioni sono affidate a Powell, uomo del dialogo con il resto del mondo. E a riprova che tutte queste valutazioni non sono segno di dissidi interni, ma puntano a preparare una nuova politica c’è l’annuncio, fatto sempre dal Segretario di Stato, che si farà una conferenza sull’Iraq, e che vi saranno invitati anche Stati finora nemici, come la Siria e l’Iran. Una conferenza che comunque si terrà, guarda caso, proprio a ridosso delle elezioni.

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