Da Il Messaggero del 26/09/2004
Originale su http://ilmessaggero.caltanet.it/view.php?data=20040926&ediz=01_NAZ...
Professione, specialista in aiuti umanitari
Il nuovo volto della cooperazione e delle Ong: meno volontari e più laureati
di Michele Concina
ROMA - Il volontariato? E' una cosa troppo seria per lasciarla fare ai volontari. E' stato il sequestro delle due Simone a Bagdad ad accendere i riflettori sulla rete di organizzazioni che si dedica ad aiutare i Paesi tormentati dalla guerra, dalle epidemie, dalla povertà. Già al primo sguardo, ci si accorge che la pattuglia di principianti appassionati di un tempo è stata in gran parte sostituita da un esercito di professionisti dell'assistenza. Più efficienti, probabilmente; ma anche più freddi, distaccati, lontani dalla stessa immagine estroversa e sorridente delle due ragazze italiane, così come emerge dai filmati con cui le tv continuano a riempire il vuoto angoscioso dell'attesa.
In questi casi si usa spesso il termine "pianeta". E per una volta non è fuori posto. Secondo i dati raccolti da Giulio Marcon, presidente del Consorzio italiano di solidarietà e autore di Le ambiguità degli aiuti umanitari - Indagine critica sul Terzo settore , il cosiddetto "no profit" raggruppa nel mondo oltre 40 mila organizzazioni internazionali medio-grandi e 10 milioni di gruppi e associazioni a dimensione locale e nazionale. Occupa 19 milioni di persone a tempo pieno e fattura 1.100 miliardi di dollari, cioè più del prodotto interno lordo di Paesi come la Spagna, la Russia, il Canada.
In Italia, la galassia è ancora più polverizzata che altrove. Si può suddividere in tre strati. Il primo è costituito da decine di migliaia di gruppi parrocchiali e minuscole organizzazioni "all'antica", che impiegano solo volontari, con bilanci che non superano i 50 mila euro. Il secondo comprende circa 1.400 organismi di medie dimensioni, comunque impegnati in attività di solidarietà con il Terzo mondo. Mentre l'élite è rappresentata dalle vere e proprie Ong, le organizzazioni non governative - sono 180 o poco più - iscritte all'albo ufficiale che le autorizza a ricevere fondi dalla direzione generale per la cooperazione del ministero degli Esteri.
E' stata proprio la questione del finanziamento a mettere in moto la trasformazione - ancora in corso - delle Ong italiane. «Un processo iniziato nella seconda metà degli anni '80, con il calo verticale delle risorse pubbliche destinate alla cooperazione, dallo 0,37 allo 0,13 per cento del Pil», ricostruisce Marcon. «Un crollo che continua da allora. Tra i Paesi sviluppati, l'Italia è al penultimo posto per l'aiuto allo sviluppo; l'ultimo è occupato dagli Stati Uniti. E l'ultima Finanziaria ha tagliato le risorse di un ulteriore 15 per cento».
Abituate a vivere di denaro pubblico, le nostre Ong furono costrette a riconvertirsi. «Alcune si avviarono faticosamente verso il modello nord-europeo, e internazionale, dell'autofinanziamento», spiega Marina Rini, portavoce della sezione italiana di Terre des hommes. «Altre, fiutata l'aria in tempo, puntarono ai fondi dell'Unione Europea e delle varie agenzie dell'Onu. E si accorsero che era necessario attrezzarsi: i donatori chiedevano progetti a regola d'arte, studi di fattibilità, professionalità comprovabili, lauree». Assieme alle organizzazioni, così, cominciava a trasformarsi il loro personale.
«In questi anni, la cooperazione è diventata un mestiere, con tanto di corsi universitari per gli aspiranti; non un mestiere qualsiasi, però», sottolinea Rini. «Gli stipendi sono più che dignitosi, con minimi e massimi fissati dagli stessi donatori in relazione alle funzioni. Oggi un capo-progetto guadagna tranquillamente quattromila dollari, anche senza andare in Paesi da incubo. Ma potrebbe intascarli anche in altri modi. La sua è una scelta. La scelta di un professionista che vuole applicare le sue capacità in questo campo e in nessun altro; motivata, spesso, da convinzioni politiche».
Un rischio rimane, e non piccolo. «Le organizzazioni corrono il pericolo di trasformarsi in agenzie, di perdere ogni rapporto con la comunità d'origine, con la società che le ha generate e le sostiene», avverte Marcon. «E di lasciar entrare gente non sufficientemente equipaggiata di valori etici». Un segnale d'allarme è emerso fra le pieghe della tragedia irachena: è la storia di Paolo Simeone, incursore, legionario, infine reclutatore delle quattro guardie del corpo sequestrate mesi fa. Fino a poche settimane prima, si è scoperto, si occupava di sminamento per una Ong italiana, la Intersos.
In questi casi si usa spesso il termine "pianeta". E per una volta non è fuori posto. Secondo i dati raccolti da Giulio Marcon, presidente del Consorzio italiano di solidarietà e autore di Le ambiguità degli aiuti umanitari - Indagine critica sul Terzo settore , il cosiddetto "no profit" raggruppa nel mondo oltre 40 mila organizzazioni internazionali medio-grandi e 10 milioni di gruppi e associazioni a dimensione locale e nazionale. Occupa 19 milioni di persone a tempo pieno e fattura 1.100 miliardi di dollari, cioè più del prodotto interno lordo di Paesi come la Spagna, la Russia, il Canada.
In Italia, la galassia è ancora più polverizzata che altrove. Si può suddividere in tre strati. Il primo è costituito da decine di migliaia di gruppi parrocchiali e minuscole organizzazioni "all'antica", che impiegano solo volontari, con bilanci che non superano i 50 mila euro. Il secondo comprende circa 1.400 organismi di medie dimensioni, comunque impegnati in attività di solidarietà con il Terzo mondo. Mentre l'élite è rappresentata dalle vere e proprie Ong, le organizzazioni non governative - sono 180 o poco più - iscritte all'albo ufficiale che le autorizza a ricevere fondi dalla direzione generale per la cooperazione del ministero degli Esteri.
E' stata proprio la questione del finanziamento a mettere in moto la trasformazione - ancora in corso - delle Ong italiane. «Un processo iniziato nella seconda metà degli anni '80, con il calo verticale delle risorse pubbliche destinate alla cooperazione, dallo 0,37 allo 0,13 per cento del Pil», ricostruisce Marcon. «Un crollo che continua da allora. Tra i Paesi sviluppati, l'Italia è al penultimo posto per l'aiuto allo sviluppo; l'ultimo è occupato dagli Stati Uniti. E l'ultima Finanziaria ha tagliato le risorse di un ulteriore 15 per cento».
Abituate a vivere di denaro pubblico, le nostre Ong furono costrette a riconvertirsi. «Alcune si avviarono faticosamente verso il modello nord-europeo, e internazionale, dell'autofinanziamento», spiega Marina Rini, portavoce della sezione italiana di Terre des hommes. «Altre, fiutata l'aria in tempo, puntarono ai fondi dell'Unione Europea e delle varie agenzie dell'Onu. E si accorsero che era necessario attrezzarsi: i donatori chiedevano progetti a regola d'arte, studi di fattibilità, professionalità comprovabili, lauree». Assieme alle organizzazioni, così, cominciava a trasformarsi il loro personale.
«In questi anni, la cooperazione è diventata un mestiere, con tanto di corsi universitari per gli aspiranti; non un mestiere qualsiasi, però», sottolinea Rini. «Gli stipendi sono più che dignitosi, con minimi e massimi fissati dagli stessi donatori in relazione alle funzioni. Oggi un capo-progetto guadagna tranquillamente quattromila dollari, anche senza andare in Paesi da incubo. Ma potrebbe intascarli anche in altri modi. La sua è una scelta. La scelta di un professionista che vuole applicare le sue capacità in questo campo e in nessun altro; motivata, spesso, da convinzioni politiche».
Un rischio rimane, e non piccolo. «Le organizzazioni corrono il pericolo di trasformarsi in agenzie, di perdere ogni rapporto con la comunità d'origine, con la società che le ha generate e le sostiene», avverte Marcon. «E di lasciar entrare gente non sufficientemente equipaggiata di valori etici». Un segnale d'allarme è emerso fra le pieghe della tragedia irachena: è la storia di Paolo Simeone, incursore, legionario, infine reclutatore delle quattro guardie del corpo sequestrate mesi fa. Fino a poche settimane prima, si è scoperto, si occupava di sminamento per una Ong italiana, la Intersos.
Sullo stesso argomento
Articoli in archivio
di Françoise Chipaux su Le Monde del 31/08/2006
di Daniele Zappalà su Avvenire del 28/08/2006
News in archivio
su La Repubblica del 03/10/2006
su OneWorld del 01/08/2006
su Comunità di Sant'Egidio del 06/06/2006