Da Il Messaggero del 25/09/2004

«Ritiro possibile prima della pacificazione»

Usa, Rumsfeld a sorpresa contraddice il presidente nell’incontro con Allawi

di Anna Guaita

NEW YORK - Già famosa per la disciplina che vi dominava, l'Amministrazione Bush ha dato nelle ultime settimane segnali di forte scollamento. L'ultimo è venuto ieri, quando il segretario della Difesa Donald Rumsfeld ha di fatto contraddetto il presidente Bush. Quest'ultimo aveva promesso che l'impegno Usa in Iraq sarebbe «continuato senza incertezze». Lo aveva promesso ad Ayad Allawi, il primo ministro del governo provvisorio iracheno, che gli stava in piedi al fianco. Poco più tardi, ecco che tocca a Rumsfeld, anche lui con Allawi al fianco. Ma le sue parole sono diverse: «L'ipotesi che il Paese debba essere pacificato perfettamente prima che si possano ridurre le forze della Coalizione e degli Stati Uniti sarebbe ovviamente poco saggia, poiché quel Paese non è mai stato perfettamente in pace, né è verosimile che lo sia».

Una bella scoperta da fare dopo un anno e mezzo di guerra: l'Iraq non può mai essere un Paese pacifico? Ma allora l'idea di creare un'isola di pace e democrazia nel cuore di una regione "calda" dove è andata a finire? La domanda è legittima, considerato che l' Amministrazione Bush ha usato questa rosea promessa per spiegare la necessità di fare la guerra e cacciare Saddam. Mille e passa morti americani più tardi, migliaia e migliaia di morti iracheni più tardi, duecento miliardi di dollari più tardi, Rumsfeld sembra dire che dopotutto dobbiamo rassegnarci ad avere un Iraq in perenne subbuglio, e quindi tanto vale cominciare a ritirare le truppe: l'eccessiva presenza straniera, sostiene ora il segretario della Difesa, «crea tensione».

Per l'appunto, Rumsfeld aveva già fatto delle dichiarazioni alquanto controverse il giorno prima. Aveva detto che forse bisognava accontentarsi di tenere elezioni in Iraq solo in tre quarti, o forse quattro quinti del Paese. Il fatto che 3 delle 18 province irachene siano in stato di guerriglia, renderebbe a suo giudizio ammissibile tenere le famose «elezioni democratiche» solo in parte del Paese. Guarda caso, mentre Rumsfeld diceva questo, giovedì, sia il presidente che il vicesegretario di Stato dicevano il contrario. Bush ha affermato che «le elezioni dovranno procedere come previsto», mentre Richard Armitage ha promesso che «le elezioni si terranno nell'intero Paese».

Dunque su due punti importanti, le elezioni e la presenza militare in Iraq, l'Amministrazione ha dato segnali contrastanti. In parte potrebbe trattarsi di un maldestro tentativo di contenere i danni causati dagli attacchi del concorrente democratico John Kerry, che ha cominciato l'ultima tappa della campagna elettorale presidenziale con due discorsi programmatici: uno dedicato a illustrare la sua possibile strategia per il disimpegno dall'Iraq, un altro a riassumere come si deve combattere contro il terrorismo. Kerry, che è distanziato nei sondaggi e sta tentando il tutto per tutto, ha avuto parole durissime contro Bush e i suoi uomini, accusandoli di aver lanciato la guerra contro l'Iraq a scapito della guerra contro il terrorismo, e di aver in tal modo reso gli Stati Uniti e il resto del mondo meno sicuri. Kerry tra l'altro ha insinuato che se Bush sarà rieletto, potrebbe reintrodurre negli Usa la leva obbligatoria, per far fronte alla richiesta crescente di truppe. Nei giorni scorsi, effettivamente, il generale John Abizaid, comandante in capo nella regione, aveva ammesso: «Penso che avremo bisogno di un numero maggiore di truppe». Le parole del generale sono state presto smentite da altri funzionari del Pentagono, e Rumsfeld ha precisato che i rinforzi ci saranno, ma saranno iracheni. Ieri, il segretario della Difesa ha rilanciato, con la proposta di ritirare parte delle truppe, anche se non ci fosse la pacificazione. Una reazione che secondo Kerry, dimostra ancora una volta che l'Amministrazione «vive in un mondo di fantasia».

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