Da La Repubblica del 15/09/2004

La sinistra e i conti con il terrorismo

di Miriam Mafai

IL RIPOSIZIONAMENTO della sinistra di fronte al problema del terrorismo e al rapporto con gli Stati Uniti è un elemento di cui non basta prendere atto, con maggiore o minore soddisfazione. Ne vanno invece approfondite le ragioni e le possibili conseguenze all´interno dello stesso schieramento e sulla scena politica nazionale. Il primo nemico, dice Fassino, è il terrorismo, e «non esiste alcuna ragione politica, etnica, religiosa che lo giustifichi». Non basta. Per combatterlo «è fondamentale ricostruire un saldo rapporto tra Usa ed Europa, un rapporto indispensabile anche con l´America di Bush».

«Il terrorismo è un avversario dell´umanità e va affrontato senza nessun ma», sostiene Bertinotti. «La sinistra non si è battuta abbastanza contro il terrorismo», rincara Ingrao. È una linea che viene contestata e rifiutata non solo da una parte del movimento pacifista e no global ma anche da esponenti del centrosinistra, dai Verdi ai Comunisti Italiani.

Può darsi che a questa correzione di linea (parlo di correzione di linea e non di ribaltamento, perché analoghe posizioni erano già state espresse in passato da alcuni esponenti del centrosinistra) abbiano contribuito le ultime imprese del terrorismo jihadista: dallo sterminio dei bambini nella scuola di Beslan, alla ferocia con la quale operano le varie fazioni religiose in Iraq, fino all´uccisione del nostro Baldoni e al rapimento delle nostre due Simone, che si volevano messaggere di pace. Ma al riposizionamento della sinistra sulla questione del terrorismo ha anche forse contribuito una più matura riflessione sulla sua natura, le sue motivazioni ed obiettivi.

Per molto tempo la sinistra ha esitato a prendere una posizione netta contro il terrorismo islamico perché affetta da una sorta di sentimento di colpa nei confronti del mondo arabo e musulmano. La colonizzazione prima, la globalizzazione poi avrebbero ridotto quei paesi alla miseria e all´arretratezza. Il terrorismo (tesi cara soprattutto al movimento no global) sarebbe dunque la risposta, violenta ma in qualche modo comprensibile, alle sofferenze di cui l´Occidente era responsabile. Solo una diversa politica economica su scala mondiale avrebbe dunque potuto sanare quelle ferite, avviare un progresso economico e civile in quei paesi e così mettere fine al fenomeno del terrorismo. In realtà non è così. Il terrorismo islamico non è l´espressione di coloro che una volta si definivano "i dannati della terra" (anche se del loro sostegno ci si può servire), non si propone nessun risarcimento delle ingiustizie subite dai paesi musulmani nel passato. La "guerra santa" lanciata da Osama bin Laden fin dal 1996 si nutre della condanna totale del modo di vita occidentale e si ispira a una precisa visione geopolitica. È dovere di ogni mussulmano, si legge in quel proclama, uccidere gli americani, civili e militari, per liberare la Moschea di al-Aqsa (a Gerusalemme) e la Moschea Sacra (alla Mecca). Quando finalmente gli americani e i loro alleati avranno lasciato i paesi dell´Islam, questi verranno governati, da un nuovo califfo, secondo le norme della «legge divina della sharia». Nel progetto di Osama e di al Qaeda tutto il mondo musulmano, dall´Arabia Saudita al Marocco, una volta liberato dai suoi attuali governanti, verrà sottoposto alla legge della sharia.

Ha perfettamente ragione Adriano Sofri quando indica nella questione del velo il nodo duro, simbolico dell´offensiva islamista, "il complemento della guerra per la proprietà delle donne nei paesi islamici". In gran parte del mondo arabo nel corso del secolo scorso, le donne si erano liberate del velo. E se ne liberavano, sbarcando in Francia, le immigrate algerine o marocchine. Ma l´offensiva del fondamentalismo islamico ripropone e impone il velo dall´Iran di Khomeini all´Afghanistan dei Taliban come segno della sudditanza delle donne e riaffermazione di una società ferocemente androcentrica. (E non importa che alcuni studiosi contestino questa interpretazione rigorista e astorica del Corano).

Tutto questo non ha nulla a che vedere con le colpe dell´Occidente. Un miglioramento delle condizioni di vita di quei paesi (ma l´Arabia Saudita dalla quale provengono gran parte dei dirigenti della jihad è tutt´altro che un paese povero) oltre ad essere un obiettivo giusto in sé, potrebbe certamente ridurre il consenso di cui si avvalgono ancora al Qaeda o altre organizzazioni del terrorismo. Lo stesso esito avrebbe certamente una soluzione giusta del dramma israelo-palestinese, obiettivo per il quale lavorò purtroppo senza successo Bill Clinton negli ultimi mesi della sua presidenza.

Anche noi abbiamo conosciuto nel corso degli anni ?70 il fenomeno del terrorismo, sotto forma delle Br. Sarebbe sbagliato forzare oltre un certo limite l´analogia, ma anche allora la sinistra, o meglio una parte della sinistra, tardò a riconoscere il nemico, cercò giustificazioni alle loro azioni violente. Lungi da me l´idea di stabilire una qualsivoglia analogia tra Curcio e bin Laden. Ma in alcune espressioni, se non di simpatia, di comprensione nei confronti del terrorismo islamico, io non posso non sentire l´eco per quanto lontana di analoghe posizioni che, all´interno di una parte della sinistra, venivano espresse nei confronti delle azioni delle Br. E mi chiedo come è possibile che quella drammatica esperienza non ci abbia vaccinato una volta per tutte contro ogni possibile forma di comprensione nei confronti del terrorismo. Non so darmi una risposta. A meno che la ragione non stia nel permanere in una parte almeno della sinistra laica e cattolica di quello che chiamiamo "antiamericanismo", un sentimento complesso che andrebbe anch´esso più attentamente esaminato. «Siamo tutti americani», scrisse e disse qualcuno subito dopo l´attentato dell´11 settembre. Ma non era vero. A sinistra c´è anche chi, rovesciando la parola d´ordine lanciata a suo tempo da Reagan contro l´Urss, è convinto che l´America sia l´Impero del Male. Se è così, allora, chi combatte contro l´America, sia pure con l´arma del terrorismo, merita qualche comprensione.

Forse esagero, ma nella resistenza che in alcune zone della sinistra vengono frapposte alle nuove posizioni di Fassino, Bertinotti, Ingrao mi sembra di leggere anche i residui, mai del tutto estirpati, di questa posizione.

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