Da La Repubblica del 14/09/2004

Viaggio nel paese del Salvador che grazie alle rimesse dagli Usa vanta un tenore di vita da record

Intipucá, disoccupati e ricchi la città-miracolo degli emigrati

Restano solo tremila ragazzini e vecchi e ogni mese ricevono due milioni di dollari
Furono i primi ad avviare il grande flusso di partenze verso l´America

di Omero Ciai

INTIPUCÁ (Salvador) - Finché tutti si sono occupati di cotone, canna da zucchero, e caffè, nessuno dei cittadini di Intipucá è diventato ricco. Con i frutti dei Caraibi oggi non avrebbero le stradine in mattoncini di cotto rossiccio, né grandi ville, in stile bostoniano, con le facciate bianche, le porte in ferro lavorato, il giardino, e neppure tutto il ben di dio che ci sta dentro. Né sarebbero i proprietari di una delle rare isole felici del Centroamerica, cittadella gaudente e prospera, piena soltanto di vecchi che giocano a carte e di ragazzini che aspettano il loro turno, a duecento chilometri da San Salvador e a pochi passi dall´Honduras. La specialità di Intipucá è l´emigrazione. I residenti fissi nella zona urbana sono appena tremila, disoccupati e contenti. Gli altri, più di diecimila, lavorano negli Stati Uniti. Un po´ a Washington, un po´ a Los Angeles. Lavapiatti, muratori, badanti e camerieri.

Wilfredo Chavez, il primo a trasferirsi negli Usa - «era il ?68» - racconta che tutto cominciò con la crisi del cotone. «Decine di famiglie persero la terra per il crollo dei prezzi. Mio padre era in debito con le banche, ci presero la fattoria e restammo a terra. Un amico mi convinse a partire. Era il nostro sogno, l´unica possibilità di avere un futuro». Wilfredo arrivò a Washington clandestino e si mise a lavorare in una lavanderia. «Due anni, poi mi beccarono e venni rispedito a casa. Tornai, mi beccarono di nuovo dopo sei mesi». Ma la via era ormai aperta. Oggi i sette fratelli di Wilfredo e i suoi quattro figli vivono in America. La maggior parte, ormai legalmente. Così lui veste spinato, mette soltanto camice "Brook´s" e vanta un reddito mensile che la metà dei suoi connazionali sogna. «Negli anni Ottanta, quando in Salvador infuriava la guerra civile, da Intipucá partivano 300 persone ogni mese. C´era - racconta - una famosa "coyote", Corinna, la guida che per mille dollari a cranio, organizzava il viaggio». Guatemala e Messico fino al rio Grande. Il passaggio della frontiera era affare di ognuno. Qualcuno ce la faceva, qualcun altro no. «Ma con Corinna - giura Wilfredo - fino al Rio Grande non c´erano problemi. Nessuno veniva aggredito o ucciso lungo il viaggio. Dovremmo farle un monumento».

Grazie all´emigrazione le famiglie di Intipucá ricevono due milioni di dollari ogni mese. Un altro milione arriva attraverso la Fondazione "Hermanos lejanos" (Fratelli lontani). La Fondazione ha costruito lo stadio di calcio; finanzia la squadra, che si chiama Hermanos lejanos, maglietta rosso e gialla, e gioca in seconda divisione; ha pagato la pavimentazione delle strade; e, ora, ha versato il finanziamento per la "Casa della cultura", un maestoso edificio a tre piani con la biblioteca, internet gratis, biliardo e calcetto. Così Intipucà è diventato un modello per il Salvador. È come se, per qualche strana alchimia, fra queste colline che scendono dolci verso il mare, il modello economico vincente in tutto il Centroamerica dopo la stagione delle guerriglie marxiste - ovvero emigrazione e rimesse - , sia emerso con grande anticipo. Mentre il paese combatteva, quelli di Intipucá emigravano. Prima di tutti. Questo vantaggio è ciò che la rende oggi in qualche modo unica, anche se, ormai, le profezie di Reagan e la sconfitta del "Farabundo Martì" hanno trasformato tutto il paese in un serbatoio di emigranti. Due milioni e mezzo di salvadoregni - il 30 percento del totale - lavorano all´estero. E il 28 percento delle famiglie, in Salvador, vivono grazie all´assegno che tutti i mesi arriva dall´estero.

Tony Saca, l´ex radiocronista che ha vinto, alla grande, le ultime presidenziali, il 21 marzo scorso, ha giocato pesante sull´amicizia con Washington. Uno spot, ripetuto a raffica nel rush finale della campagna elettorale, mostrava una coppia della classe media che riceveva una telefonata angosciata dal figlio a Los Angeles: «Mamma, sono molto preoccupato», diceva il ragazzo. «Perché?», chiedeva la madre. «Perché se la sinistra vincerà le elezioni, potrei essere espulso e tu non riceveresti più le rimesse che ti sto inviando», rispondeva il ragazzo. Così, dopo il compromesso firmato al termine della guerra civile nel 1992, gli ex guerriglieri del Farabundo Martì hanno perso la pace. Mentre i comandanti litigavano per una quota di potere nel nuovo scenario democratico, i boss di Arena, il partito della destra, si spartivano le risorse del paese e indicavano il modello futuro vincendo quattro elezioni presidenziali di seguito. Il primo passo furono le privatizzazioni. Oggi, Alfredo Cristiani, un tempo braccio destro di D´Abuisson, tristemente famoso leader degli squadroni della morte, possiede una holding che comprende banche privatizzate, il monopolio dei fertilizzanti, imprese farmaceutiche, i fondi pensione, anch´essi privatizzati, e varie immobiliari.

Grazie agli ottimi legami con le lobby americane, quelli di Arena (che come gli anti-sandinisti in Nicaragua, ricevono tutti i finanziamenti Usa quando si tratta di vincere elezioni), garantiscono il buon funzionamento del meccanismo economico. I salvadoregni che vivono illegalmente negli Usa vengono spesso graziati dai condoni, parziali o totali. Un condono dopo l´uragano, un altro dopo il terremoto, il prossimo appena sarà necessario a salvare il trionfo di quella che si chiamò Reaganomics.

Per le strade di Intipucá è del tutto evidente perché l´ex guerriglia ha perso la sfida della democrazia. Perché riesce a vincere le amministrative, governa il comune di San Salvador ma non sfonda nella stanza dei bottoni. Su una casa, meno bella delle altre, c´è un grande murales del Farabundo Martì con il disegno del volto di Schafik Handal, l´ultimo candidato. Il primo punto del suo programma era il ritorno del "Colon" (Colombo), la moneta nazionale spazzata via, quattro anni fa, dalla dollarizzazione. Come si fa, in un paese dove il 30 percento della popolazione vive negli Stati Uniti, guadagna e spende in dollari, a proporre il ritorno alla carta straccia?

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