Da La Stampa del 26/05/2004

LEZIONE A PRINCETON DI GEORGE RYAN, EX GOVERNATORE REPUBBLICANO DELL’ILLINOIS

Conservatore contro la pena di morte

di Maurizio Viroli

PRINCETON - Se mai gli Stati Uniti aboliranno la pena di morte, George Ryan, governatore repubblicano dello Stato dell'Illinois dal 1999 al 2003, sarà certo ricordato come uno dei principali artefici della riforma. Nel gennaio del 2000 prese la decisione, senza precedenti nella storia americana, di imporre la sospensione a tempo indeterminato delle esecuzioni capitali nello Stato dell'Illinois, con la motivazione che il sistema giudiziario aveva dato prova di essere inaffidabile, soprattutto per la pena di morte. Tre anni dopo concede il perdono, facendoli uscire di prigione, a quattro detenuti condannati alla pena di morte sulla base di confessioni estorte dalla polizia di Chicago con la tortura. Poco prima di lasciare la carica di governatore commuta nella prigione a vita 167 sentenze capitali.

Ryan ha tenuto una lezione alla Woodrow Wilson School di Princeton per spiegare le ragioni delle sue scelte passate e del suo impegno attuale contro la pena di morte. In aula c'erano moltissimi studenti, evento davvero eccezionale data la ben nota apatia politica che regna a Princeton. Più eccezionale ancora è la commozione profonda che Ryan ha saputo suscitare con parole scarne e asciutte, da farmacista del Midwest quale era prima di entrare in politica. Lo hanno ascoltato in un silenzio assoluto, e lo hanno salutato con la standing ovation.

Il suo argomento principale è molto semplice: «La pena di morte nel nostro paese è inflitta in modo arbitrario e ingiusto. Per questa ragione dobbiamo abolirla dal nostro sistema giuridico». Abbiamo troppe e troppo chiare prove, spiega, «che molti innocenti finiscono nel braccio della morte soltanto perché non possono permettersi buoni avvocati». Se questa constatazione non è sufficiente a convincere il legislatore ad abolire la pena di morte, «almeno imponiamo il moratorium e istituiamo in tutti gli Stati commissioni d'inchiesta che esaminino il funzionamento del sistema giudiziario».

Nei quattro anni in cui ho servito come governatore, spiega, «tredici condannati a morte sono stati riconosciuti innocenti dopo quindici, sedici o diciotto anni di prigionia nel braccio della morte. Che differenza farebbe sospendere le esecuzioni capitali per qualche anno e istituire la commissione d'inchiesta?».

Con questa tesi Ryan vuole muovere un'opinione pubblica ancora largamente favorevole alla pena di morte. Molti americani sono «favorevoli alla pena di morte perché la considerano la giusta retribuzione per chi uccide o perché la considerano un deterrente necessario». Molti di coloro che sono favorevoli in linea di principio «sono tuttavia pronti ad ammettere che se il sistema troppo spesso sbaglia, e manda a morte degli innocenti, bisogna cambiarlo».

Oggi George Ryan è convinto che la pena di morte sia sbagliata anche in via di principio, ammira la cultura giuridica europea che da tempo ha abolito la pena di morte e si vergogna del fatto che gli Stati Uniti siano «il solo paese democratico che conserva la pena di morte». Per tutta la vita è stato invece un sostenitore della pena di morte. «Come tutti gli altri nella mia piccola comunità di Kankakee credevo che la pena di morte fosse la punizione ovvia e naturale contro i crimini più odiosi. Per questa ragione nel 1977 votai a favore della legge che ripristinava la pena di morte nello Stato dell'Illinois. A farmi cambiare idea è stato il caso di Anthony Porter, un poveretto mentalmente ritardato che doveva essere giustiziato nel settembre del 1998 per un omicidio avvenuto nel 1982. Due giorni prima dell'esecuzione i suoi legali ottennero una temporanea dilazione che permise a un professore di giornalismo della Northwestern University, David Protess, di raccogliere, con l'aiuto dei suoi studenti, prove schiaccianti che il povero Porter era innocente. Nel febbraio del 1999, appena insediato, ho concesso la grazia a Porter e ho cominciato a chiedermi com'era possibile conservare la pena di morte con un sistema così inefficiente e ingiusto. Se io, conservatore e repubblicano, sono giunto alla conclusione che non possiamo mantenere la pena di morte, perché anche gli altri americani non dovrebbero giungere alla medesima conclusione?».

Gli chiedo se è proprio vero che l'opinione pubblica americana è in larga maggioranza favorevole alla pena di morte o se non sia piuttosto l'élite politica che per mancanza di coraggio preferisce ripetere un luogo comune. Mi risponde che i più recenti sondaggi d'opinione confermano che il 70 per cento degli americani è favorevole alla pena di morte e che «nessun politico può permettersi di apparire “soft on crime”, se vuole essere eletto». Aggiunge tuttavia che «la percentuale degli americani favorevole a sostituire la pena di morte con la prigione a vita si avvicina al 50 per cento». Voi europei, osserva, «siete ancora più avanti di noi perché avete in pratica abolito anche l'ergastolo per sostituirlo con lunghe detenzioni di venti o trent'anni». Non capita spesso di ascoltare frasi del genere in un paese che si considera superiore a tutti gli altri.

Il vero problema, spiega Ryan, è che la stragrande maggioranza dei cittadini americani vive la pena di morte come un problema che non li riguarda. «Quanti di voi hanno conosciuto un condannato a morte?».

Nessuno alza la mano. «La settimana scorsa ero in una comunità afroamericana dell'Illinois. Ho posto la medesima domanda, e molte mani si sono alzate». Voi giovani «dovete essere i protagonisti della riforma perché la pena di morte offende i più sacri principi della democrazia americana, e come americani avete il dovere di cambiare le cose».

Perché sono soprattutto gli afroamericani e i latinoamericani a finire nel braccio della morte?, gli chiedo. Risponde che la ragione principale non è il razzismo, ma la povertà. «Gli afroamericani e i latinoamericani sono i più poveri. Non possono permettersi buoni avvocati. Ho constatato personalmente che molti dei condannati a morte erano stati difesi da avvocati che si sono presentati al processo ubriachi o si sono addormentati durante il dibattimento. Sembrano storie da Terzo Mondo, ma avvengono invece qui, nel nostro paese».

Le parole di Ryan lasciano il segno, e fanno sperare che l'abolizione della pena di morte negli Stati Uniti non sia più un sogno impossibile. Non più impossibile, ma ancora molto difficile, e la responsabilità principale cade sull'élite politica. Ne è prova la risposta di Ryan all'ultima domanda: quanti governatori di altri Stati le hanno telefonato per congratularsi della decisione di imporre il moratorium sulle condanne a morte, e quanti hanno seguito il suo esempio? «Nessuno».

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