Da Corriere della Sera del 10/09/2004

«Curavano mio figlio leucemico. Ora che farò?»

Tutte le attività delle volontarie: farmaci, acqua, istruzione. Assistevano direttamente 92 famiglie

di Lorenzo Cremonesi

I conti sono presto fatti. Mohammad Al Dilemi è disoccupato, ex psicologo in un carcere alla periferia della capitale, dalla fine della guerra riceve una pensione mensile di 10 dollari. «Come curare mio figlio Sufian? Ha 12 anni, da 3 abbiamo scoperto che soffre di una rara forma di leucemia. Ma le medicine mi costano 10.000 dollari all’anno. Ho venduto la casa, la macchina, i gioielli di mia moglie. Ma non ci sto dentro», racconta. Non serve un genio per capire che 120 dollari all’anno non arriveranno mai a pagarne 10.000. Dunque, nessuna possibilità di cura prolungata. «Conti fatti, Sufian sarebbe stato destinato a morire, se a un certo punto l’anno scorso non avessi incontrato le due Simone di Un ponte per... Due angeli. Hanno trovato i medicinali per l’emergenza. Era appena morta una bambina di leucemia inclusa nel loro programma di aiuti. I suoi genitori si erano rivolti a loro con troppo ritardo. E Simona Torretta dette immediatamente disposizione che le medicine appena arrivate dall’Italia per lei fossero date a Sufian. Poco dopo venivamo inclusi nel programma di aiuti con i finanziamenti internazionali coordinati da Un ponte per...».

Mohammad non ha parole, gli occhi si riempiono di lacrime nel ripetere per la millesima volta in due giorni il racconto del rapimento delle due Simone assieme ai loro colleghi iracheni. Ricorda bene i tempi dell’embargo, gli ospedali con i medici corrotti, i privilegiati della dittatura e i poveracci come lui. Le sue infinite attese nei corridoi per elemosinare una scatoletta di medicinali, l’appuntamento con lo specialista sempre rinviato, con il suo bambino che giorno dopo giorno diventa sempre più debole, si avvelena il corpo, sino a morirti letteralmente tra le braccia. «Le due Simone sono state un raggio di luce. Ci hanno ridato la speranza», dice ancora. E Sufian poco fa ha parlato ai media arabi per chiedere la liberazione delle «mie due amiche e mamme italiane». E ora un sentimento di riconoscenza gli esce dal cuore. «Tutte le volte che le ho viste, che guardo e riguardo le loro foto, mi dico che sono giovani, belle. Potevano godersi la vita a casa loro, fare quello che fanno le ragazze normalmente, andare a ballare, cercare marito. E invece si dedicano a noi, bambini malati dell’Iraq».

Facilmente le «due Simone» si schernirebbero, si metterebbero a ridere se adesso potessero leggere quello che scriviamo di loro. «Non vi diciamo troppo di noi, niente particolari privati. Altrimenti, se poi ci rapiscono, chissà quante fesserie melense scrivete voi giornalisti», diceva ogni tanto la Pari scherzando. Ma, davvero, a vedere meglio quello che hanno fatto sino al maledetto pomeriggio di 3 giorni fa c’è da gridarlo in faccia ai rapitori che stanno commettendo un crimine contro il loro stesso popolo. Come bene sottolinea Zina Al Azzawi, 28 anni, dalla fine degli anni ’90 coordinatrice locale del Ponte per..., «da dopo il blitz nella nostra sede e il rapimento delle Simone 92 bambini iracheni tornano a essere in pericolo di vita». Questo il numero dei piccoli assistiti. Per ognuno nella sede dell’organizzazione c’è una cartella di documenti, date di nascita, referti medici, lettere per la ricerca di finanziamenti in vista di eventuali operazioni in Italia. Sono tutti casi molto gravi: tumori, malformazioni congenite, talassemie, vittime di incidenti e ovviamente della guerra. «Prima del conflitto l’anno scorso, i casi dei piccoli assistiti erano oltre 200», ricorda la Al Azzawi.

Ma non è solo questa l’attività del Ponte per... La Torretta ha la supervisione totale. La Pari segue nello specifico i progetti sull’istruzione, una passione maturata soprattutto nel periodo in cui ha lavorato per la Ong inglese «Save the Children ». Così si occupano di attività di aggiornamento per docenti universitari, del ripristino della biblioteca di Bagdad, della riabilitazione di 7 impianti per il trattamento delle acque a Bassora e altri due nella regione. Pochi mesi fa era stato dichiarato terminato con successo un progetto simile nella stessa area. Loro fiore all’occhiello sono i progetti «Farah», i gemellaggi con le scuole italiane: 50 elementari, 10 medie, 15 superiori grazie ai fondi raccolti con pazienza e presentazioni interminabili di documentazioni per ricevere i contributi dall’Unione Europea e dall’Unicef. A latere, le iniziative eccezionali, come l’invio d’acqua e medicinali nelle enclaves bombardate dagli americani a Falluja, Sadr City e Najaf. Una decina di giorni fa la Pari si era sentita felice come una bambina quando il rettore di una scuola nel quartiere sciita di Sadr City era venuto a ringraziarla assieme all’imam locale.

«Due angeli. Io non capisco. Mi sembra di essere caduta in un incubo da cui non riesco a uscire», esclama Ilam Kadhem, 50 anni, la cui figlia diciassettenne Miriam è in cura per combattere la talassemia. «Le due Simone ci hanno procurato tutte le medicine necessarie. Noi siamo in contatto con Un ponte per... sin dalla sua apertura nei primi anni ’90. Nel 1997 la Torretta iniziò a prendere in considerazione la possibilità di un trapianto di midollo osseo. Ma allora viaggiare era impossibile a causa dei limiti imposti dalla dittatura e anche della mancanza di soldi in tutto il Paese. Ora però si stava preparando la documentazione per l’operazione in Italia. Temo che con il loro rapimento anche l’esistenza di mia figlia divenga ostaggio dei sequestratori». Miriam è una bambinetta gracile, indebolita dalle medicine. Ma ha l’aria attenta, gli occhi grandi. Sussurra: «Non capisco. Sono venute qui per aiutarci. Non per essere rapite. Mi vergogno di noi. Come potremo dire al mondo che esiste un Iraq diverso?».

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