Da Corriere della Sera del 05/08/2004

Italians

Gli americani si chiedano perché sono stimati meno

di Beppe Severgnini

Fossi americano, mi domanderei perché il mio Paese abbia perso stima nel mondo; e chiederei spiegazioni all'amministrazione Bush, che non sembra estranea a questa débâcle. Ma non sono americano. Sono soltanto un amico dell'America e mi limito a essere dispiaciuto. Molti, questi discorsi, non li vogliono nemmeno sentire: tra gli americani, e ancor più tra gli adulatori dell'America. Lo vedo anch'io, dal mio piccolo osservatorio: ogni volta che nella rubrica Italians qualcuno critica la politica di George W., si becca una scarica d'insulti. Dall'Italia gli dicono «comunista» (chissà da chi l'hanno imparato). Dall'America, se il mittente è residente laggiù, gli scrivono: «Se non ti piace qui, tornatene a casa tua».

Domanda: l'ascesa e la possibile elezione del capelluto John Kerry possono cambiare questo stato di cose? La domanda è importante, perché da tempo un'elezione presidenziale non assumeva questi connotati.

L'America di Ronald Reagan era lontana da quella di Jimmy Carter e quella di Bill Clinton era diversa da quella di Papà Bush. Gli amici dell'America avevano le loro simpatie politiche e le loro opinioni economiche; dissentivano su varie iniziative; un giorno applaudivano la libertà della stampa e il giorno dopo attaccavano il sistema sanitario. Ma la stima di fondo era fuori discussione: l'America restava l'orgoglio del mondo libero.

Stavolta è diverso. L'America sembra incapace di farsi apprezzare come merita (per la sua storia, per la sua cultura politica, per i suoi successi). Il capitale di simpatia accumulato dopo l'11 settembre 2001 è evaporato. L'hanno scritto in tanti. Tra i primi, Mark Hertsgaard: il suo libro del 2002 s'intitolava L'ombra dell'aquila. Perché gli Stati Uniti sono così amati e così odiati (Garzanti). Ultimamente hanno espresso preoccupazioni simili Michael Ignatieff e Timothy Garton-Ash sul New York Times ; Thomas Fuller e Brian Knowlton sull' Herald Tribune («Gli Usa sembrano perdere autorità morale», 5 luglio). Tutta gente moderata: molto diversa da Michael Moore, per intenderci.

Certo, il mondo potrebbe essere impazzito e non vedere che l'attuale amministrazione ha ragione su tutta la linea: guerre preventive e leggi di polizia, Abu Ghraib e Guantanamo, tribunali internazionali e Croce Rossa, diffidenza verso le Nazioni Unite e tentativi di dividere l'Europa, generiche diffidenze e precise reticenze (qui in Italia, ad esempio, perché non rassicurare gli abitanti di Maddalena circa i rischi della base militare? Perché chiudersi dietro i trattati e i no comment? Suvvia, la guerra fredda è finita).

Ripeto: l'attuale amministrazione potrebbe aver capito tutto e forse - come sostiene George W. - sarà promossa dalla storia. Ma la storia è domani; l'impopolarità è oggi, e produce conseguenze. Fossi un americano, mi spiacerebbe - come minimo - essere tanto incompreso. Mi irriterei sapendo che vari autocrati nel mondo (dalla Thailandia alla Malesia, dal Kenya alla Nigeria) citano la recente legislazione Usa per legittimare pratiche repressive.

Fossi un americano, manderei una letterina ai miei governanti dicendo: «Ehi, voi! Com'è possibile aver sofferto per il terrorismo, aver combattuto per un secolo contro le dittature, aver accolto gente da tutto mondo, aver regalato al mondo dozzine di premi Nobel e Julia Roberts e ritrovarsi tanto impopolari? Fatemi parlare con l'ufficio marketing!». La letterina potrebbe arrivare: magari sotto forma di voto per John Kerry, in novembre. Voi direte: ma la politica estera Usa non cambierà da un giorno all'altro, il Patriot Act non verrà abbandonato, la spocchia verso l'Europa non può diventare, di colpo, intesa cordiale! Vero. Ma il marketing talvolta fa miracoli. Al punto che il prodotto è costretto ad adeguarsi alle aspettative del pubblico e migliora per davvero.

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