Da Corriere della Sera del 02/08/2004

Quell’odio-amore tra i socialisti e Silvio «Ora deve scegliere: noi o il Carroccio»

De Michelis scrive al premier: dopo le urla alla Moroni il patto del 2001 non c’è più

di Aldo Cazzullo

«A differenza di altri, io non l’ho mai pensato. Non ho mai pensato che noi socialisti Berlusconi l’abbiamo creato, gli abbiamo dato le tv, gli abbiamo insegnato a fare politica, e lui ci ha abbandonati per mettersi con quelli che sventolavano il cappio». Parola di Gianni De Michelis. Anche a lui è toccato ascoltare il ritornello del charter per Hammamet, in occasione del rituale pellegrinaggio. Nessuno dei dirigenti del vecchio Psi rivendica il refrain; non La Ganga, non Andò, non Di Donato; semmai lo riferisce agli altri. «Ma gli storici lo potranno attribuire a uno solo di noi, al capo, a Bettino - dice De Michelis -. Ma lui purtroppo non c’è più. E noi dobbiamo fare politica, non psicanalisi». Tanto non occorre Freud per capire che i socialisti - il 2 per cento; poco in termini assoluti e in tempi tranquilli, moltissimo in prossimità di scadenze elettorali - hanno con Silvio Berlusconi un rapporto di odio e di amore. Hanno in comune il nemico storico, i comunisti che in combutta con i giudici distrussero il partito («e anche sulla fucilazione di Bruno Buozzi vorrei vederci chiaro» disse Claudio Martelli nel comizio di piazza Navona, in morte di Craxi). Ma al Cavaliere non hanno mai perdonato la freddezza con il capo morente, le scorciatoie offerte ai Cicchitto e alle Boniver cooptati direttamente in Forza Italia, gli ostracismi nell’assegnazione dei collegi alle politiche 2001. Alla fine i posti furono solo due. E non per il leader De Michelis, né per Martelli. «È una questione di principio: io non potrei mai stare in una maggioranza che considera impresentabile il mio segretario» disse - in un consiglio nazionale finito a sediate - un insospettabile, Paris Dell’Unto, uomo che nessuno ha mai potuto accusare di idealismo. Invece De Michelis si piegò. Berlusconi aveva deciso che i due posti spettavano ai due orfani: Bobo Craxi e Chiara Moroni; i memento di Tangentopoli, i figli dei sacrificati, il contrappasso della storia. Per questo i fatti di sabato alla Camera, con gli insulti leghisti alla Moroni e alla memoria del padre suicida, sono «la spia di un malessere politico» (De Michelis), «un fatto gravissimo» (Bobo Craxi), «una barbarie» (Stefania Craxi). Tutto questo, e qualcosa di più: la prova che il miracolo di Berlusconi - far convivere gli eredi del pentapartito e i giustizialisti del ’92, Borgoglio e Borghezio, il garofano e il cappio - si è incrinato.

«Incrinato è dir poco - va oltre De Michelis -. Le grida contro la Moroni indicano che il patto elettorale del 2001 non esiste più. È tutto spezzato: non solo la coalizione, ma anche i partiti. An è ormai divisa in due sottopartiti, mezza Udc non obbedisce al segretario, la Lega si comporta in modo schizofrenico, metà di lotta metà di governo, persino Forza Italia si divide. Quando Berlusconi ha annunciato che la verifica è finita, non indicava un fatto; esprimeva un auspicio. Falso, ora lo sappiamo. Ormai è chiaro che il tentativo del Cavaliere di ricostruire gli equilibri infranti dal voto di giugno con una politica personale è fallito». Ieri De Michelis gli ha scritto una lettera: le scuse formali della Lega non bastano, il patto del 2001 va riscritto. Un passo formale, ineccepibile quanto inutile. Tanto il vecchio leader socialista sa bene che non ci saranno né le scuse, né il nuovo patto. «La nostra è una collocazione provvisoria in una coalizione provvisoria. Questo bipolarismo è finito, e non poteva andare altrimenti. È stato costruito attorno a Berlusconi per frenare i postcomunisti. Con la loro crisi irreversibile, lo schema si è rovesciato: Berlusconi contro tutti, tutti contro Berlusconi. Non può funzionare così».

Alla fine si ritorna sempre là. A Milano, ad Hammamet. Berlusconi che imbandisce la tavola per Craxi a Sankt Moritz, «Silvio non voglio spigola in montagna, portami un uovo», e lui lo portava. Berlusconi che con Craxi ormai in Tunisia chiede una grazia impossibile e subito dopo si ritira in buon ordine. «Non gli perdono di non essere mai stato a trovare mio padre neppure una volta», disse l’anno scorso Stefania Craxi in un’intervista. «Era lui che mi chiedeva di non andare» rispose il premier. «Non mi pare, io assistevo alle loro telefonate, e Bettino non ha mai chiesto a Silvio di non venire. Veronica si è comportata meglio» commentò Anna Craxi dalla casa di Hammamet, dove vive.

«Ma sabato non abbiamo assistito al fallimento di Berlusconi, bensì a quello della Seconda Repubblica - dice oggi Stefania -. Sono dieci anni che dura questa storia di barbarie, di inciviltà. Non è vero quanto dicono molti compagni, che Berlusconi ha imparato da mio padre a fare politica; e si vede. Ma dall’altra parte, a sinistra, cosa c’è? Sabato hanno applaudito Chiara, e hanno fatto bene. Dieci anni fa gettavano le monetine a mio padre». Anche Bobo Craxi racconta di aver ripensato a Tangentopoli, «alle aggressioni, all’odio. I leghisti sono così: odiano i socialisti, odiano le donne. Adesso Berlusconi deve dire qualcosa, perché per noi le condizioni sono cambiate. La casa che dopo Mani Pulite ci era parsa un ricovero, un riparo, un rifugio, ora è un luogo da incubo. Dobbiamo prepararci a riprendere il viaggio, a rimetterci in cammino, come accade a chiunque viva una diaspora».

In cammino verso sinistra? Ugo Intini, che ha dedicato decenni a provocare i comunisti su Togliatti e sabato ci ha messo un minuto a far impazzire i leghisti su Bonomi presidente dell’Alitalia, dice di attendere a braccia aperte i compagni che hanno sbagliato, anche se non ha perso il vizio: «Mi pare giunto per loro il momento dell’autocritica». Il dado è in mano a De Michelis, che tra i socialisti superstiti è ormai oggetto di un culto (di nicchia) della personalità, tipo campione scandinavo di lancio del giavellotto o regista iraniano. Ai convegni è richiestissimo, i talk show se lo contendono, il Foglio riceve lettere firmate (non da lui né da consanguinei) che cominciano così: «Ieri sera ho visto De Michelis in tv. Che gigante! Che fuoriclasse della politica!». «Mi sento come Tabacci - dice -. Anch’io vado più d’accordo con Enrico Letta che con Caparini, con i riformisti che con i giustizialisti». Come dargli torto. Ma finché a sinistra ci saranno Cossutta e Mussi, e forse anche D’Alema e Prodi, è difficile pensare a un ribaltone socialista.

«Io sono un uomo di sinistra, come mio padre, come Gianni» dice Bobo. Il calcolo di De Michelis è che i voti Psi sono finiti a Berlusconi, e lì bisogna stare se si vuole recuperarne una parte. «Almeno per ora». Si sacrifichi quindi la giovane Moroni. Che non è neanche offesa: «I leghisti hanno ragione, quando dicono che sono in Parlamento in quanto figlia di mio padre Sergio. Solo che per loro è un insulto, per me un orgoglio». Paura, onorevole? «Un po’. Il Parlamento è meno sicuro della metropolitana», conclude sorridendo.

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