Da Corriere della Sera del 22/07/2004

VIAGGIO ALLA BOSCH

Tra gli operai che hanno detto no alle 35 ore

di Massimo Nava

VÉNISSIEUX (Francia) - Così muore un’utopia. Alla Bosch di Vénissieux, periferia di Lione, pragmatismo e paura s’inchinano al dio Prodotto. L’alternativa sarebbe stata il trasloco della produzione nella Repubblica Ceca, Stato membro (per ora) senza costi europei. «Un ricatto», dicono molti operai e i dirigenti della Cgt, il sindacato comunista sconfessato dal 98 per cento degli 820 dipendenti che hanno approvato l’accordo: tornare a 36 ore senza aumenti salariali, in cambio di investimenti e mantenimento di gran parte dei posti di lavoro. I 18 che l’hanno respinto verranno licenziati. È una svolta nelle relazioni industriali francesi e un colpo d’ascia sulla legge delle 35 ore. Un segnale sociale che potrebbe evocare la marcia dei 40 mila «quadri» alla Fiat di Torino negli anni Ottanta.

Gli operai della Bosch sono gli «eroi» maturi e responsabili per l’imprenditoria e la stampa economica, comunque l’avanguardia degli «affossatori» delle 35 ore, in un contesto emblematico dei tempi nuovi. Vénissieux è dal dopoguerra una roccaforte comunista, bastione di lotte e d’immigrazione, come testimoniano i monoblocco di cemento, squadrati e anonimi, e la grande zona industriale attraversata da autostrade urbane. Un’immagine di «restaurazione» che si vuole più sfumata all’interno della fabbrica. Negli anni Trenta era un’officina francese per motori aerei distrutta dalla guerra. Dal ’73 il gruppo Bosch vi produce iniettori e candele per diesel e in futuro tecnologie per il motore common rail . «Non è un accordo sulle 35 ore, ma sulla garanzia del lavoro. Abbiamo capito che il nostro destino era segnato. Con i nuovi investimenti abbiamo un futuro. Pagando un prezzo. Non c’è scelta se hai le spalle al muro», dice sintetico Jean- Luc Gomard, alla Bosch da 15 anni.

«A cinquant’anni non hai molte possibilità di trovare un altro posto. E se hai il mutuo da pagare e due figli a carico, la scelta fra lavoro sicuro e meno tempo libero è obbligata», dice Alfredo Mugolone, napoletano, da trent’anni alla Bosch come molti immigrati italiani, portoghesi, spagnoli. «In realtà - precisa un collega, Michel Lullier - non è cambiato molto. L’orario settimanale rimane lo stesso di 39 ore, su tre turni, anche di notte. L’accordo ci ha tolto sei giorni di riposi compensativi, la Pentecoste e l’Ascensione, ha ridotto premi di produzione e bloccato i salari per tre anni. Questo è il problema più grave». Claudio Piga, un altro italiano, racconta il dibattito in famiglia, perché sua moglie, impiegata in una fabbrica vicina, continua a lavorare 35 ore. «E’ stato meglio accettare che perdere il posto. Tra l’altro, noi della Bosch continuiamo a stare un po’ meglio che nelle fabbriche della zona. Qui si guadagnano dai 1.350 ai 2 mila euro al mese, a seconda dei livelli». Negli uffici del comitato di fabbrica, si capisce che la qualità dell’impresa è fatta anche di servizi e integratori del salario sconosciuti a molti lavoratori di questa provincia: vacanze per i figli, viaggi scontati in Egitto e alle Canarie, assicurazioni e cure mediche. Tutto conquistato con competenza e ritmi di produzione «tedeschi», ma tutto ancora al sicuro. «I sacrifici sono stati ripartiti a tutti i livelli. Dirigenti e quadri hanno accettato un forfait che può arrivare a 12 ore al giorno. Tutti abbiamo perso un po’ di riposo e un po’ di quattrini, ma c’è una riduzione d’orario peggiore: la disoccupazione. Sai allora quanto tempo libero!», dice Marc Soubitez, il dirigente della Cfdt, il sindacato indipendente, che si è battuto per far passare l’accordo.

Soubitez ha fatto un viaggio alla Bosch in Boemia, dove «assumono al ritmo di dieci persone alla settimana e portano gli operai in pullman da Praga perché in zona non se ne trovano più». «La nostra è una storia emblematica della competitiva globale e dei ritardi dell’Europa anche in campo sindacale. Non serve a nulla cambiare gli orari in un Paese solo. Noi francesi abbiamo aperto la strada, ma nessuno l’ha percorsa». «Altro che sindacati maturi - s’indigna Florentin, operaio della Guadalupa - nemmeno un’ora di sciopero. Come si può accettare di regalare le ore al padrone ed essere contenti?». Anche Florentin ha comunque accettato. Come tutti. I 18 oltranzisti sono per lo più anziani che hanno intravisto un più conveniente prepensionamento o fra i pochi che avevano un’alternativa di lavoro.

Come Patrick Desmette, 48 anni, che andrà in una tipografia in Svizzera. «Non accetto la regressione sociale e posso fare un altro mestiere. Dopo 27 anni di sveglie all’alba, ne avevo abbastanza della Bosch. Farò il pendolare. Losanna non è lontana». Sua moglie, che lavora alla Bosch come segretaria, ha però deciso di accettare il nuovo orario.

Serge Truscello, origini siciliane, delegato sindacale della Cgt, 40% d’iscritti, è il grande sconfitto in questa vicenda. «Il livello di ricatto e pressione sui singoli dipendenti non ci ha dato scampo. La Bosch voleva aumentare profitti già notevoli e tagliare il costo del lavoro del 12 per cento. L’argomento delle 35 ore non regge. L’azienda voleva imporre nuove regole. Hanno ridotto premi di produzione, straordinario notturno, incidenze sulla tredicesima, contributi sindacali. E’ persino aumentato il prezzo della mensa. Per i prossimi tre anni i salari saranno bloccati e comunque senza garanzie per il futuro». «Questo accordo è deprimente - dice Fernandez, un altro delegato - perché ha diviso il sindacato e stravolto le relazioni industriali. Non può essere il sindacato a fare dumping sociale da un Paese all’altro e dentro fabbriche dello stesso gruppo. Alla Bosch di Bari chiederanno di lavorare 42 ore? Si vuol far passare l’idea che investimenti e mantenimento degli impianti in Europa siano possibili in cambio della fine di un modello sociale.» Forse non è un caso che, fra i pochi giornalisti stranieri venuti a raccontare il caso Bosch, ci siano i colleghi della tv sudcoreana. Loro, di orari e ritmi, se ne intendono.

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