Da La Repubblica del 20/07/2004

Dall´invettiva a De Mita alla campagna anti-Ue: la parabola di un Gianburrasca nel Palazzo

Dialetto, tasse e razzismo la lunga sfida di Bossi a Roma

Quando vinceremo le elezioni farò in modo di spostare la capitale da Roma ladrona a Milano
Sono andato da Ciampi e ho giurato da ministro, ma come padano. Oggi in cravatta, domani di nuovo in canottiera
All´Europa daremo il meno possibile. C´è chi vuole un super stato guidato da bande di tecnocrati
Fanno leggi imbecilli, in una lingua ieratica e inaccessibile, per imporre la lunghezza del cetriolo

di Francesco Merlo

Esce dal Parlamento italiano la cascina di Cassano Magnago, elevata a cattedrale e ad università. «È stata la mia via Gluck», raccontò Bossi al suo migliore biografo, quel Daniele Vimercati che nel 1992 gli dedicò «Il vento del Nord», un libro insuperato, "il libretto rosso" del bossismo, che fissò per sempre negli archivi e nelle menti degli italiani la biografia di quello strano deputato che girava per Montecitorio con l´aria dissipata di chi si è appena svegliato in un fienile o di chi abita stabilmente in una Cinquecento, i capelli sempre unti di fatica anche dopo lo shampoo, la lingua povera, gli anacoluti, una formazione da scuola serale, frequentata nei ritagli di un tempo occupato a sbarcare il lunario.

Non sorprende che Bossi, gran maestro pataccaro anche da impedito, voglia adesso far credere di avere optato per il Parlamento di Strasburgo, non come si sceglie una clinica o una casa di riposo, ma per punire Roma ladrona, per lanciare l´ennesimo finto avvertimento, per fare rumore. Ed è certo che quell´ospedale di Lugano continuerà ad essere, chissà per quanto tempo ancora, come il sanatorio della Montagna Incantata, il laboratorio metafisico del berlusconismo, il luogo dove si discute, si fanno esperimenti di trasmutazioni d´essenze, tra flebo e pitali, infermiere e pastine. Altri momenti ci saranno attorno al letto di degenza per rianimare la rivoluzione padana, rimodulare la litania del federalismo o resuscitare il proporzionalismo. Il malesser fisico di un uomo, per giunta marginale culturalmente, politicamente e geograficamente, continuerà a identificarsi con la poltica del paese, sarà il paravento di ambizioni inconfessabili, di inadeguatezze, mediocirtà, di conflitti di interesse irrisolti, di miopia istituzionale e di beghe partitocratiche.

E tuttavia sono fortissimamente simboliche le dimissioni, da deputato più ancora che da ministro, dell´uomo che voleva la secessione e che adesso si è «secesso». Bossi lascia, da sconfitto, l´odiatissima Roma che ieri lo ha salutato con la riverenza democristiana di Casini, la più violenta delle carezze: «Ci mancherà la sua grande intelligenza».

Casini sa bene che esce dal Parlamento italiano il capo dei razzisti, l´ormai vecchio «uomo nuovo» del nativismo settentrionale, lo straniero camusiano che piacque ai cronisti e agli intellettuali perché nella politica degli anni novanta, soffocata dentro un linguaggio esangue, tutto rituali e finzioni, Bossi sembrava autentico, simpatico e sanguigno, con le sue camice incredibili, i colletti alati, le cravatte in opposizione ideologica. In tv liquidava De Mita dicendogli in milanese «attaccati al tram», ed era un sollievo perché la battuta volgare era l´uscita collettiva dal soffocamento della cipria, l´illusione dell´ossigeno tra profumi stagnanti e irrespirabili, la catarsi. De Mita infatti incarnava, suo malgrado, l´arzigogolio del meridionale, l´imbonimento della politica, la sordità delle istituzioni.

Ebbene, «attaccati al tram» era l´invito che tutta l´Italia voleva rivolgere a quel mondo bloccato, ingessato nei suoi abiti di gessato istituzionale.

Ma Bossi non era solo folklore liberatorio. Prometteva pallottole. Mario Segni era «una lumaca bavosa»; con i giornalisti voleva fare a pugni «visto che non abbiamo soldi per comprarvi»; con la bandiera tricolore «si puliva le palle»; gli avversari politici bisognava «impiccarli»; ai meridionali voleva mettere l´anello al naso; gli immigrati extracomunitari andavano schedati con le impronte delle dita dei piedi... Bossi è un repertorio infinito, che fra l´altro ha alimentato la parte peggiore e più divertita del giornalismo italiano, spesso mascherato come giornalismo moralista e di sinistra. Bossi infatti è stato la tracimazione rancorosa di tutti i più vieti luoghi comuni del suburbio. Altro che federalismo, altro che Hamilton, Jefferson, Cattaneo e Gioberti, tutti finiti, come non potevano non finire, nelle mani di Francesco D´Onofrio, autore per conto del governo Berlusconi di una riforma da federalismo fru-fru, fortunatamente inattuabile.

La verità è che Bossi ce l´ha a morte con tutti quelli che ritiene responsabili della sua povertà, materiale e culturale. Pensa che la Cascina di Magnago dov´è cresciuto sia stata il campo di concentramento istituito dal centralismo burocratico mondiale, col soccorso dei terroni del sud e dei padroni del nord: «Mio nonno, povero operaio, tornava a casa e diceva che l´emigrazione era un trucco del grande capitale per fregare i lavoratori. Poi buttava il suo pugno immenso sul tavolo di legno e urlava con la sua voce carvernosa: ?va a caga´ i padrun, va a caga´ i terrun´» Ai giornalisti raccontava con orgoglio di essere cresciuto, il Bossi, come una specie di Gianburrasca, che è la cifra simbolica e mitica degli adolescenti. La sua biografia è quella di un uomo che cerca di uscire confusamente da quella cosa vera e strana che era l´oblio di una grossa parte dell´Italia, quella parte che lui chiamava la nuova frontiera di Brianza, Varesotto e Comasco.

Un´Italia, che ancora negli anni Sessanta, il tempo del Bossi adolescente, era fatta solo di Milano, Torino, Firenze e Roma mentre tutto il resto era appunto frontiera, il Varesotto come Eboli, il Nord Est più povero del Sud.

Infatti Bossi si descriveva come un contadinello inurbato, teppistello che «imbrogliava la fame con un panino», lavori saltuari, trombettista con le labbra grosse, una specie di Cerutti Gino: «Vivevo spesso al limite della legalità». Insomma Bossi si conduceva come oggi un albanese, come ieri un terrone.

Come loro, Bossi vorrebbe essere risarcito dalla storia. Dunque cattivo carattere, sistemi politici punitivi, la crudeltà di far pagare al mondo quell´essere stati maltrattati, di avere fatto il muratore a sedici anni, di avere dovuto affrontare i rivali (vincenti) in amore in questo modo: «Era più alto di me. Ci accorgemmo che aveva lasciato la moto all´uscita della balera: aprimmo il serbatoio e ci pisciammo dentro». Tutto è stato raccontato: Bossi lavorava in una tintoria, friggeva patatine nelle feste paesane e scriveva parole di canzoni, genere padano-demenziale: «Noi siam venuti dall´Italy / abbiamo un piano per fare la lira / entriamo in banca con un caterpillar / ci prendiamo il grano, ye ye».

E Bossi ha pure raccontato che a vent´ anni, con la terza media, scoprì la cultura: «Mi iscrissi alla Scuola Radio Elettra per corrispondenza». E qui tutto diventa ancora più confuso, più bossianamente truccato: «Divorai 500 libri in poche settimane». Sostenne di avere addirittura dato lezioni private: meccanica, chimica, fisica, soprattutto matematica: «Mi chiamavano il professorino di Samerate, i miei allievi si ricordano ancora di me e mi ricordano come un professore di sinistra» E´ difficile spiegare come si diventa razzisti. Bossi lo divenne dentro l´ingenuità adolescenziale che si accanisce contro i difetti dei vinti della nuova frontiera, dei marginali del Varesotto, in nome del nonno, della voglia di risarcimento, della banalissima, diffusa rivolta contro il fiscalismo dello Stato che ruba ai produttori del nord per mantenere i clienti, qualche volta criminali, che gli organizzano il consenso al sud. Egli stesso lo racconta in maniera inconsapevole ma straordinaria: «Decidemmo di sfruttare l´antimeridionalismo così diffuso in Lombardia come in altre regioni del Nord per attirare l´attenzione del vasto pubblcio e dei mass media. Diedi volutamente un taglio un po´ rozzo a certe parole d´ordine e posi al centro della nostra propaganda la questione del dialetto, sia per fare scandalo, sia per gettare fumo negli occhi ai partiti romani». Fondarono la lega autonomista, l´organizzazione che voleva rimandare i terroni a casa loro, per vessillo «lo smantellamento dei privilegi ai meridionali nei concorsi pubblici», e poi niente più tasse devolute a Federico Barbarossa, un giornale, Alberto da Giussano «che campeggiava così bello nella piazza di Legnano».

Ecco, Bossi diventa razzista per farsi notare, come elemento della sua scapigliatura. E diventa razzista perché, come tutti quelli che provano a fare mille cose, in realtà non aveva nulla da fare. Divennne razzista perché era disorientato. Neppure ci credeva, ma il razzismo fu una opportunità come le altre. Divenne razzista perché, sbandato, incontrò la politica più sbandata del secolo, e divenne razzista «con l´autorevole avallo del professore Miglio», professore emerito di stupidaggini storiche, bravissimo nel Diritto costituzionale ma ben più volgare di Bossi stesso, perché la simpatia razzista, con la scienza di mezzo, diventa Inquisizione bestiale, e non c´è nulla di peggio della legittimazione dotta delle corbellerie. Se non avesse catturato il consenso, quel razzismo sarebbe stato per Bossi una delle tante cose cominciate e lasciate a metà.

Ma Bossi ha consenso politico, intercetta Tangentopoli, diventa un fenomeno di fine epoca, la corruzione alimenta il suo strampalato movimento, l´Italia non sopporta più né Machiavelli né Marx, e Bossi è la versione incolta e settentrionale del moralismo anticapitalista di Leoluca Orlando e della Rete: entrambi vogliono rinnovare il linguaggio, entrambi vorrebbero mandare tutti in galera. Bossi porta in politica la cavernosità del nonno padano, «va a caga´ i padrun e va a caga´ i terrun», mentre Orlando introduce il sospetto dei Gesuiti, Torquemada, la politica come materia da Codice penale. Bossi dura di più perché dietro di lui c´è l´economia, ci sono fabbriche, una nuova ricchezza che si sente in pericolo, operai che diventano padroncini mentre monta un nuovo razzismo planetario, la disperazione degli immigrati neri, la fuga dall´Europa dell´est, il rancore dell´Islam e verso l´Islam. Comincia con la difesa del dialetto veneto o lombardo, comincia dunque con pulsioni pasoliniane, inventa la Padania, una specie di Ellade longobarda, lancia slogan che sono ormai patrimonio politico nazionale, come «Roma ladrona» che può non piacere ma rende l´idea. Entrato in scena come un Mangiafuoco, Bossi sta uscendo come una Cenerentola, un povero diavolo che cerca di vendere la propria malattia come l´ultimo dei suoi tappeti.

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The ins and outs of politics in Italy
su The Economist del 21/04/2005
 
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