Da Il Messaggero del 12/07/2004

Sharon: altri morti, il muro non si tocca

di Marcella Emiliani

Dopo mesi di inattività, il terrorismo palestinese si è rifatto vivo proprio all'indomani della sentenza della Alta Corte dell'Aja che condanna il muro fortissimamente voluto dal premier Sharon proprio per fermare i kamikaze. E, fino a ieri, il muro pareva davvero una barriera di una qualche efficacia contro il terrorismo. Nel primo semestre del 2003 gli attentati sono stati 17 a fronte dei 60 del primo semestre del 2002, anno di inizio della costruzione.

Ma che il problema rimanga politico è dimostrato dal fatto che sia Sharon che Arafat si sono affrettati a “leggere” l'attentato di Tel Aviv in un'ottica tutta strumentale alla congiuntura del momento. Per Sharon è stato realizzato “sotto gli auspici” della sentenza dell'Aja, per Arafat invece si tratterebbe addirittura di una provocazione israeliana voluta proprio per indebolire i palestinesi nel momento in cui potevano farsi forti della sentenza dell'Alta Corte per isolare Israele a livello internazionale. Visto dall'altra sponda del Mediterraneo quanto è successo ieri a Tel Aviv in realtà non fa che rafforzare nel premier israeliano la convinzione della necessità del muro e gli fornisce anche la giustificazione più drammatica per difenderlo contro la sentenza dell'Aja. Di fronte al sangue, l'illegalità giuridica del muro finisce cioè fatalmente in secondo piano e, tanto per ribadire la sua posizione, proprio nel pomeriggio di ieri lo stesso Sharon ha presieduto una riunione interministeriale in cui è stato deciso di proseguire la costruzione del muro, Aja o non Aja.

Quanto ad Arafat, tanto per cambiare, sta in guai seri. Proprio la sentenza poteva rappresentare una boccata d'ossigeno per la sua Autonomia nazionale palestinese (Anp) ormai totalmente travolta dalla repressione israeliana e dagli effetti del terrorismo di marca islamica che per il governo Sharon sarebbe comunque teleguidato dal presidente dell'Anp. Ancora la sentenza forniva una ribalta come l'Onu per riproporre le ragioni dei “moderati” palestinesi contro Israele, ma anche contro Hamas e la Jihad islamica. E' inutile negare che dopo gli “assassini mirati” dello sceicco Yassin e di Rantissi, guida spirituale e leader politico di Hamas, Arafat e il premier palestinese Abu Ala avevano visto aprirsi spazi politici nel braccio di ferro che oppone le organizzazioni islamiche al governo palestinese dietro l'Intifada.

Ora il cammino torna in salita: difficile capitalizzare la sentenza dell'Aja, difficile convincere l'opinione pubblica israeliana e mondiale che anche coloro che si presentano come “moderati” non siano in qualche modo collusi col terrorismo (per di più le Brigate Al Aqsa sono il braccio armato di Al Fatah), difficile riguadagnare terreno nei confronti di Hamas e Jihad islamica. E Arafat ne è talmente conscio che dell'attentato di Tel Aviv ha dato, appunto, la lettura più estrema attribuendolo ad Israele nel vano tentativo di salvare il salvabile.

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