Da La Stampa del 27/06/2004

Le speranze da salvare

di Barbara Spinelli

MERCOLEDÌ prossimo, quando le truppe della coalizione anglo-americana restituiranno all'Iraq la sovranità, non avremo il mondo più sicuro che l'amministrazione Bush pretende ancor oggi d'aver realizzato. Molte cose son cambiate in Iraq, e il suo popolo ha ragione di sperare in un regime meno sanguinario di quello che fu di Saddam Hussein. Il suo presente è immerso nella violenza quotidiana, molti sono gli insorti che continuano a considerare illegittimo il governo provvisorio, ma il futuro degli iracheni è almeno aperto, e già questa è novità non trascurabile.

Ma il mondo più sicuro di cui parla Bush prometteva ben altri risultati, percepibili non solo in Iraq ma nei Paesi circostanti, oltre che in America ed Europa, e sono questi risultati che vengono a mancare, il giorno in cui Baghdad riconquista parte dell'indipendenza. L'Iraq viene restituito a se stesso perché così vogliono le contingenti esigenze elettorali di Bush, non perché il Paese sia capace di stare sulle proprie gambe e disponga d'uno Stato funzionante, in grado d'esercitare un monopolio della violenza. Nazioni Unite e Nato vengono in extremis rivalutate dalla Casa Bianca ma anche questa è una mossa di politica interna: il controllo delle operazioni militari resta in mano americana, e l'Onu non intende mandare propri soldati in una zona dove al posto del totalitarismo stabile di Saddam si sono insediati l'anarchia e i signori del terrore. Bush è sicuro del proprio disegno elettorale ma sul futuro dell'Iraq e sulla natura delle sue forze politiche non ha idea alcuna, e sull'ordine mondiale non possiede nessuna strategia.

È il motivo per cui non ha molto senso prestare all'amministrazione Usa una speciale strategia globale di lotta al terrorismo: una strategia cui gli europei sarebbero chiamati a rispondere con un chiaro sì o un chiaro no. La strategia semplicemente non esiste, non c'è una linea politica cui si possa dire sì o no, e tutte le cose che Bush ha fin qui detto, per giustificare la guerra nel Golfo, son parole senza rapporto con la realtà, son fantasie d'una potenza che vuol vedersi grande ed eroicamente sola, quando si guarda allo specchio. Sono un'ideologia allo stato puro, che non si cura né degli effetti che provoca, né delle inimicizie che suscita, né dei risultati concreti che ottiene.

Quel che fin qui sappiamo, è quel che la guerra in Iraq non è stato e non è. Non è stata una spedizione per liberare il pianeta dalle armi di distruzione di massa, perché Saddam non ne possedeva più: perché fu corteggiato quando le aveva, e schiacciato quando non le aveva.

Non è una tappa nella lotta mondiale al terrorismo, perché oggi abbiamo per la prima volta, in uno Stato petrolifero di primaria importanza, quel che Bush stesso considerò, a suo tempo, la linfa degli islamici terroristi: il tracollo delle strutture statali e la loro degenerazione (lo Stato fallimentare paventato nella dottrina sulle guerre preventive). Abbiamo uno Stato non ancora restaurato in Afghanistan, uno Stato disastrato in Iraq e, in parallelo, la destabilizzazione dell'Arabia Saudita e l'incancrenirsi del conflitto Israele-Palestina. Le cifre più recenti sul terrorismo non sono quelle ottimistiche date in aprile a Washington. Nel 2003 il numero di attentati ha raggiunto vette mai raggiunte in vent'anni, come documenta l'analista Paul Krugman sul New York Times, e nei primi cinque mesi del 2004 il numero di morti è doppio rispetto all'anno precedente. Perfino lo scenario che a molti parve poco credibile per il solo fatto che somigliava a una brutta e inelegante sceneggiatura - la volontà americana d'impossessarsi del petrolio iracheno, in vista di un'eventuale perdita dell'Arabia Saudita - potrebbe finire in incubo.

Quel che rischiamo in futuro è di perdere entrambi, sia Arabia Saudita sia Iraq, con effetti nefasti su prezzi petroliferi ed economia globale.

Quest'assenza di strategia americana è la vera malattia che affligge il mondo, e di fronte a essa si trovano oggi gli europei e l'Onu, i presidenti che succederanno a Bush e i governi della Nato che lunedì si riuniranno a Istanbul per fare il punto sulla lotta al terrorismo e assistere le forze armate irachene. È un'assenza di strategia che Bush cerca di dissimulare dietro le sue continue citazioni storiche, ma che con la storia del secolo passato ha poco da spartire. Bush non è i molti personaggi che dice di reincarnare, e l'America che dirige non è l'America da lui evocata: la sua politica antiterrorista non è una lotta al totalitarismo paragonabile alla guerra fredda contro il comunismo, lui stesso non è comparabile a chi pensò e condusse a termine l'offensiva democratica contro le dittature europee e gli stessi suoi consiglieri si chiamano neoconservatori ma di conservatore non hanno nulla.

Per vincere la guerra fredda si schierarono armi ma ci si impegnò anche in una politica di persuasione psicologico-politica dei popoli soggiogati dall'avversario. Si opposero missili, ma questi furono messi al servizio di un contenimento dissuasivo che doveva rendere la guerra non fattibile, anche se temibile. Ma soprattutto, il mondo libero doveva apparire migliore, in tutti i campi. Doveva esser rispettoso della legge e dei diritti dell'uomo, doveva esser tollerante del diverso e far le guerre in modo differente. Le torture nella base afghana di Bagram, nella prigione di Guantánamo, nel carcere di Abu Ghraib in Iraq hanno messo termine a qualsiasi illusione circa una moderna edizione della guerra fredda. Un Occidente che avesse mostrato queste immagini ai tempi della guerra fredda non avrebbe mai vinto l'Unione Sovietica né avrebbe sedotto gli europei orientali.

L'idea che Bush sia un uomo della guerra fredda svilisce il decisivo evento che è stato la Liberazione del 1989 e i successi innegabili che la guerra fredda ha conseguito. È un'idea ingannevole ed è una trappola, in cui rischiano di cadere i pacifisti e gli oppositori europei della politica statunitense, compresa la sinistra italiana. Non è un grande disegno di guerra fredda che essi si trovano a dover combattere, ma un gretto nazionalismo che non esita a gettarsi in avventure coloniali fallimentari, a difendere la propria intoccabile sovranità, e a mettere in gioco la propria stessa democrazia. In fondo siamo tornati all'11 settembre: ogni cosa è da ripensare, da rifare, a cominciare dalla rimessa in questione delle sovranità assolute, rivelatesi inefficaci contro Al Qaeda. La lotta al terrorismo va impostata da capo, negli Stati Uniti come in Europa, e a nessuno conviene che tutte le idee vengano screditate dal fallimento americano. La speranza in un'espansione mondiale delle libertà individuali, dello Stato di diritto, del benessere distribuito con equità continua a essere il vero argine contro i terrorismi, e il diritto d'ingerenza non può esser gettato nelle pattumiere per la sola ragione che Bush ne ha fatto scempio.

Da questo punto di vista ha ragione Ciampi, quando con tenacia ostinata (e quel grano di follia che permise alle democrazie di vincere contro nazismo e comunismo, nel XX secolo) continua a sperare l'impossibile: un ritorno dell'Onu, del multilateralismo e del diritto, in Iraq e nelle relazioni internazionali. La fine della sfiducia che l'Onu incute nelle amministrazioni Usa - sia repubblicane che democratiche - e il superamento dell'inerzia che caratterizzò le Nazioni Unite nei Balcani o nel genocidio in Ruanda.

Quanto agli europei, non si tratta di dire sì o no a Bush, o alle amministrazioni più o meno nazionaliste che verranno. Si tratta di escogitare una politica in proprio, che tenga conto delle forti radici di questo nazionalismo e non si limiti ad aspettare che torni infine un buon Presidente alla Casa Bianca, cui accodarsi e obbedire. Quali che siano le scorrettezze americane, gli europei sono costretti ad aggiustare le cose che Bush ha sfasciato, perché non possono convivere con un nuovo Stato - l'Iraq - che nel frattempo è divenuto il rifugio terrorista tanto agognato da Bin Laden e Zarqawi: rifugio più prezioso dell'Afghanistan, per la sua posizione e il suo petrolio. Sono costretti a promuovere veramente libero mercato e democrazia, come suggerito dalla retorica di Bush e anche dall'Iniziativa per l'Europa più Grande che l'Unione si propone d'attuare oltre i propri confini.

Ma tutto questo gli europei dovranno farlo con le proprie forze: affinando le proprie idee, e scommettendo sulla sovrannazionalità della propria resistenza al terrore. Costruendo un rapporto più razionale con Washington, e acquisendo tuttavia la consapevolezza che oggi si tratta di riempire un vuoto americano, e non di allinearsi o non allinearsi a una presunta strategia statunitense.

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