Da La Repubblica del 26/06/2004

Bush e la bolla del malumore

di Vittorio Zucconi

Il trend, ci ripetono gli esploratori dei sentimenti pubblici, si deve sempre guardare al trend, la tendenza, più che ai numeri nelle istantantanee dei sondaggi. Dunque, ecco l´andamento dell´opinione pubblica americana sulla guerra di Bush nell´anno trascorso tra l´invasione del marzo 2003 e la «piccola offensiva del Tet» antigovernativa scatenata giovedì scorso dai guerriglieri in Iraq con centinaia di feriti e morti, secondo la Gallup.

Domanda: invadere l´Iraq è stata la scelta giusta? Risposte favorevoli: aprile 2003: 76 %. Agosto: 68%. Settembre: 58%. Aprile 2004: 52%. Ieri, 25 giugno 2004: 46%. Il trend non inganna. Anche negli Stati Uniti, come nelle nazioni europee, la maggioranza ormai disapprova. Per la prima volta dall´11 settembre, l´opinione interna americana, il vero terreno politico sul quale si combatte la guerra per l´Iraq, comincia a dubitare.

È un collasso di consensi (un terzo dei cittadini che cambiano idea in quindici mesi) che spiega il comportamento vacillante e nervoso di George Bush, ora in viaggio verso un vertice Nato per rimettere insieme i cocci di quella solidarietà occidentale di cui la sua «cieca superbia imperiale», come dice il titolo di un libro di denuncia firmato da un alto funzionario anonimo della Cia, credeva di poter fare a meno. Tutte le sue ultime mosse, dal ritorno al Palazzo di Vetro per creare l´impressione di una svolta, alla richiesta di aiuti alla Nato per sostenere l´occupazione, fino all´annuncio di nuove riserve mobilitate per rinforzare l´esausto contingente al fronte, non servono a «vincere una guerra» che richiederà, secondo l´ideologo Paul Wolfowitz, «non meno di cinque anni». Devono servire a evitare che la guerra fatta per «cambiare regime» a Bagdad provochi un «cambio di regime» a Washington e si ripeta la strana maledizione di Saddam sui Bush, che puntualmente lo sconfiggono in guerra soltanto per essere a loro volta battuti nelle urne.

Il nervosismo della squadra Bush è ormai evidente. Saltano i nervi al vicepresidente Cheney che ha, pubblicamente e letteralmente, mandato un anziano e rispettato senatore d´opposizione a «farsi fottere», mentre Wolfowitz deve «chiedere scusa ai coraggiosi inviati di guerra in Iraq» dopo averli accusati di inventare le cattive notizie restando al sicuro in albergo. Cresce l´ansia che questa generica opposizione espressa nei sondaggi si traduca in un travaso di voti sull´avversario democratico, John F. Kerry, cosa che ancora non è avvenuta. Lo smottamento della popolarità di George W ha prodotto una enorme "bolla" di elettori scontenti ma non ancora disposti a traslocare sull´altro fronte politico, dove infatti le previsioni di voto continuano a indicare un equilibro assoluto fra "W" e "JFK".

Ma la bolla del malumore dovrà scoppiare in autunno e per evitare che si riversi su Kerry, Bush e il suo regista elettorale hanno in pratica abbandonato le dottrine screditate della destra neo radicale per fare, invece, esattamente quello che il suo avversario e i democratici predicano. Dunque Bush rompe l´isolamento diplomatico dell´America con il ritorno all´Onu già dileggiato e insolentito. Approfitta del commosso anniversario del D-Day per riscoprire l´amicizia con la Francia del detestato Chirac. Bussa alla porta della Nato dimenticata come un ferrovecchio per chiedere non aiuti materiali, che ben poco potrebbero incidere sulla sicurezza dell´Iraq dopo lo "show" del trasferimento di sovranità limitata, ma toglieranno argomenti a Kerry, che non chiede ritiri né contesta la guerra, ma attacca la maniera pretestuosa e unilaterale con la quale Bush l´ha condotta.

L´Iraq, dunque, è il campo di battaglia sul quale la Casa Bianca combatte per salvare sè stessa, nella ironia amara di un governo democratico che dipende, per il proprio futuro, dalle sorti di un governo non democratico. La coda irachena scuote il cane americano come indicano i trend espressi dai sondaggi. Anche i sempre più irritati e scontenti amici di questa Casa Bianca dicono ormai apertamente che «l´avversario di Bush a novembre sarà l´Iraq» (William Krystol, direttore dell´organo neo conservatore Weekly Standard) e che «il destino di Bush si gioca a Bagdad» (Dick Morris). Per uscire dalla trappola che lui stesso si e costruito attorno, ascoltando le stolte sirene dell´Iraq liberato «come la Germania del 1945», Bush deve chiedere la chiave agli altri. Per creare l´apparenza di una normalizzazione che regga fino al giorno della verità, quel due novembre 2004, nel quale i sondaggi diventeranno voti.

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