Da La Repubblica del 28/06/2004
Originale su http://www.repubblica.it/2004/f/sezioni/politica/ballott/azzugianni/az...

IL COMMENTO

L'Italia azzurra non c'è più

di Massimo Giannini

Cade la Provincia di Milano, "brucia" la Casa delle Libertà. Berlusconi, dalla lontana Istanbul, può anche dire che "dormirà tranquillo lo stesso", e che tanto per il governo "non cambia nulla". Ma con lo spettacolare tracollo di Ombretta Colli, crolla anche l'ultima fortezza del berlusconismo. Dopo aver perso le elezioni europee e il primo turno delle amministrative, il Cavaliere paga il tributo più alto ai suoi tre anni di governo conflittuale e inefficace. Forza Italia è sconfitta "in casa". Il partito-azienda perde nella città-impresa, dove tutto era cominciato giusto dieci anni fa, con la discesa in campo dell'imprenditore d'Italia. Perde nella città-laboratorio, dove l'innesto tra l'impolitica nuovista di Berlusconi e l'antipolitica populista di Bossi aveva generato la "questione settentrionale", imponendola al Paese come modello di sviluppo e al Palazzo come embrione del cambiamento.

Forse è ancora presto per dire che il berlusconismo è definitivamente tramontato. Ma è certo che in soli tre anni il Cavaliere ha dissipato un patrimonio politico immenso: una maggioranza del 51%. E il valore, non solo simbolico, di questa debacle meneghina può essere altissimo. Nel 2004 Milano per il centrodestra rischia di essere davvero quello che Bologna fu per il centrosinistra nel 1999. Il sintomo periferico di una patologia degenerativa che parte dal centro. E che, se non capita e non curata, è l'inizio della fine. Come ha pronosticato Massimo Cacciari venerdì scorso: "Neanche il Padreterno riuscirà a mettere insieme i cocci del centrodestra".

Quello che è altrettanto certo è che dai ballottaggi esce un'Italia completamente diversa da quella che il Cavaliere aveva sognato, dopo la rutilante vittoria del 2001.

L'Italia azzurra non c'è più. Il Paese "monocolore", che su un totale di 101 province vedeva Forza Italia primo partito in 81 e secondo partito in 20, si è scolorito. Ha subito la marea di ritorno del centrosinistra. Partita dal 2002 con la riconquista di Verona e Monza. Rafforzata nel 2003, con il trionfo di Illy in Friuli, di Gasbarra a Roma, di Dellai a Trento, e poi la vittoria dell'Ulivo per 6 a 4 sul Polo nei comuni capoluogo. Confermata il 13 giugno scorso, con l'affermazione in 18 comuni contro 6 (con la rivincita di Bologna e il clamoroso ribaltone a Bari) e in 38 province contro 3 (tra cui tutta la Toscana, Taranto e buona parte del Sud).

Culminata, infine, con i successi di ieri in diverse province del Nord (oltre a Milano, anche Lodi e Biella, Belluno e Novara e Piacenza), nei comuni (oltre a Firenze, anche Bergamo, Macerata e Foggia) e con il sorprendente ein plein nel Sud (Brindisi, Chieti, L'Aquila) dove in soli tre anni tutte le province "continentali", tranne Catanzaro e Isernia, sono ripassate al centrosinistra.

Si può dire finché si vuole, che un voto locale non può avere rilevanza sul piano nazionale. Che mai come in questo secondo turno hanno pesato i mancati apparentamenti palesi o gli scarsi sostegni occulti tra alleati della Cdl. Lo scontro feroce tra la Lega e Ombretta Colli a Milano, con il popolo lumbard che dai microfoni di Radio Padania invitava la candidata azzurra ad andare "a ciapà i ratt".

Il centrodestra ha contratto un virus abitualmente tipico del centrosinistra: l'autolesionismo. An e Udc sono apparsi fermi, invece di spendersi in campagna elettorale: seduti sulla riva del fiume ad aspettare che passassero i cadaveri degli amici-nemici, per dare la colpa agli uni o agli altri della mancata vittoria. Adesso i leghisti dicono che "è tutta colpa della Colli". Mentre Volontè ribatte che la sconfitta "è frutto dell'asse Bossi-Tremonti". Una resa dei conti, che in realtà non era mai finita. Tutto questo ha sicuramente influito sul risultato finale. Come ha influito quella che Guido Legnante, sull'ultimo numero di Politica in Italia (Il Mulino) chiama "l'alta specializzazione" del partito personale del Cavaliere nel voto nazionale, e il suo speculare, scarso rendimento nelle altre competizioni elettorali (secondo l'Istituto Cattaneo, il saldo provinciali-politiche di Forza Italia, tra il 2001 e oggi, è peggiorato in media del 4,1%, mentre è migliorato del 4,9% per i Ds). Ma se tutto questo è vero, in uno scenario così radicalmente mutato, è difficile dare torto a D'Alema quando dice: "È un terremoto, altro che pareggio". Altrettanto difficile non dar ragione a Buttiglione, che alla vigilia del voto diceva "i ballottaggi sono un messaggio che il Paese invia al governo". Per Berlusconi, e per la Casa delle Libertà nella formula che abbiamo conosciuto dal 2001, è suonata la campana dell'ultimo giro.

Per il premier, rischia di dimostrarsi tragicamente azzeccata l'analisi impietosa di un suo ex pupillo, quel Luigi Crespi che con Datamedia, tra sondaggi e focus group, ha avuto in mano la chiave della "macchina dei consensi" del Cavaliere: il premier ha perso per colpa dell'effetto Aiazzone. Per chi non lo ricorda, Aiazzone era il famoso mobilificio che negli anni 80 ha tempestato l'Italia con i suoi spot, sulle reti nazionali e su quelle private. Alla fine, producendo l'effetto opposto a quello desiderato: disaffezione, invece che fidelizzazione. "A un certo punto - racconta Crespi - quelli di Aiazzone hanno dovuto togliere il marchio dai camion, non riuscivano più a vendere un mobile. Anche la Cdl rischia di dover fare la stessa cosa, perché il prodotto Berlusconi non vende più... Non si può continuare a ripetere "abbiamo rispettato tutti i punti del contratto con gli italiani". L'elettore non recepisce, e piuttosto si chiede: se il contratto è stato rispettato, perché io non sto meglio?". A questa domanda, il Cavaliere non è stato e non è tuttora in grado di fornire risposte.

Per la Casa delle Libertà si impone una svolta, se è ancora possibile. Il patto di ferro Forza Italia-Lega, come dimostra la vicenda di Milano, non tiene più. Forza Italia, partito di un uomo solo al comando, che tuttavia aveva messo radici sul territorio, non le ha sapute irrigare. E alla fine, in una lotta fratricida tra fazioni (Dell'Utri contro Scajola, Scajola contro Bondi e Cicchitto) le ha lasciate inaridire. Entra in crisi come modulo post-democristiano: al contrario di quanto accadde nel 2001 (quando contava su un tasso di stabilità dei propri elettorati pari all'84%, contro il 63% dei Ds) oggi non esercita più capacità attrattiva verso il voto moderato. Al contrario, cede voti e li rimette nel circuito politico: non solo nell'alveo del centrodestra, ma anche dell'Ulivo, visto che 6,2 elettori su 100 che avevano votato Fi nel 2001 hanno votato centrosinistra due settimane fa. La Lega, dopo l'uscita di scena di Bossi, è l'altro partito in crisi della coalizione. La malattia del capo ha depotenziato il movimento, che ora galleggia soltanto sull'onda emotiva di un leader carismatico ma convalescente. Il "tremontismo", che di quel patto politico era il sigillo vivente, ha fallito la prova. E ora è diventato, anche plasticamente, l'oggetto sul quale Fini e Follini esercitano il loro accanimento, forse neanche tanto "terapeutico". Il leader di An, cercando dall'interno dell'alleanza di ottenere deleghe economiche e di riprendersi i centri di spesa del Mezzogiorno, sui quali il suo partito conta per dimostrare in prospettiva che il "fronte del Nord" è inadeguato a garantire una crescita equa e solidale al Paese. Il leader dell'Udc, cercando dall'esterno dell'alleanza di destrutturarne gli assetti, attraverso un rilancio del sistema proporzionale che dovrebbe servire a tagliare le ali estreme dei due schieramenti (Lega e Rifondazione), rendendo possibile uno sbocco neo-centrista alla transizione italiana, di cui fatalmente l'uomo di Arcore non potrebbe più essere il simbolo.

In tutti e due i casi, sia Fini che Follini lavorano già a uno scenario post-berlusconiano. Usando il linguaggio della scienza politica, si potrebbe dire che tra i partiti del Polo è cominciato un destabilizzante "free riding" post-elettorale (come avvenne alla Lega nel '94, a Rifondazione nel '96 e all'Udeur nel '98). Usando invece un termine da vecchia politica, si potrebbe dire che è iniziata la "caccia al premier". Lui, al di là dei proclami sprezzanti, tipo "datemi il 51%", "non votate i partitini", non ha fatto molto per evitarlo. Dopo la frana delle europee e del primo turno, invece di serrare i ranghi è riuscito, di nuovo, a mettere tutti contro tutti. Su queste macerie elettorali, è quasi impossibile immaginare che il Cavaliere riesca a costruire qualcosa di nuovo, se non una infruttuosa e indecorosa sopravvivenza. Non gli basterà un figurativo "rafforzamento della squadra". Ha invece una sola carta buona da giocare: la riforma fiscale: sgravi Irpef alle famiglie per 8 miliardi, e sgravi Irap alle imprese per 3 miliardi. Resta da capire chi finanzia tanti sconti tributari. E resta da capire se questa mossa basti comunque, a rimettere in partita un leader debole e autoreferenziale, e un progetto politico logorato e confusionale. In queste condizioni, non si governa per altri due anni un Paese complesso come il nostro. Più che posticipare di un anno le regionali del 2005, a questo punto sarebbe meglio anticipare di un anno le politiche del 2006. Converrebbe e Berlusconi. E, una volta tanto, quello che conviene a lui converrebbe anche all'Italia.

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