Da La Stampa del 24/06/2004

All’università donne migliori dei maschi, però il mercato del lavoro non lo riconosce

Più laureate meno occupate

di Chiara Saraceno

Quasi tre quarti (il 72%) dei laureati italiani nel 2003 sono stati i primi a raggiungere la laurea nella propria famiglia: un indicatore di miglioramento dei livelli formativi da una generazione all'altra di tutto rispetto. Il fenomeno è più accentuato nel caso delle giovani laureate. Aumenta inoltre il numero di laureati che conosce almeno una lingua straniera, che ha esperienze all'estero e che ha effettuato stage o tirocini. Si conferma e rafforza anche il sorpasso degli uomini da parte delle proprie coetanee iniziato ormai da una decina di anni: le donne sono il 59% di tutti i laureati, con uno scarto di 18 punti percentuali rispetto ai giovani maschi. Le laureate, inoltre, hanno accumulato meno ritardi, hanno avuto esperienze all'estero in percentuale lievemente superiore e concluso gli studi con voti mediamente migliori. Anche se hanno avuto meno esperienze lavorative, e vantano minore dimestichezza con l'inglese e l’informatica.

Questi dati, provenienti dalla indagine di Almalaurea sul profilo dei laureati italiani presentata ieri a Torino, documentano un forte investimento da parte delle generazioni più mature nei confronti dei propri figli ed anche un riequilibrio nelle risorse di capitale umano tra i sessi.

Si tratta di dati indubbiamente positivi; segnalano che stiamo forse colmando il divario nella percentuale dei laureati di cui soffre il nostro paese rispetto ad altri, con cui pure si confronta e compete. Tuttavia i dati presentano anche alcune problematicità su cui vale la pena di riflettere.

In primo luogo, i laureati italiani che hanno concluso nel 2003 il curriculum tradizionale pre-riforma hanno accumulato un ritardo medio, rispetto alla durata ufficiale degli studi, di due anni. Perciò hanno concluso la formazione universitaria di base ben più vecchi dei loro coetanei europei e statunitensi. Ciò vale sia per i laureati che durante gli studi hanno avuto una esperienza lavorativa continuativa (i lavoratori studenti), sia per quelli che viceversa non hanno fatto alcune esperienza lavorativa. Anche se esistono grandi differenze da una facoltà all'altra (più regolari in assoluto a Medicina, ove ha terminato nei tempi giusti il 45% dei laureati, più irregolari in assoluto ad Architettura, ove solo il 3% non ha accumulato ritardi) e tra lavoratori-studenti e studenti-studenti: tra i primi il ritardo medio è di quasi quattro anni, tra i secondi di un anno e mezzo. Da questo punto di vista un segnale incoraggiante viene dai primi laureati triennali che hanno compiuto tutto l'iter universitario nel contesto post riforma: hanno un percorso più regolare e hanno concluso con voti migliori, forse anche perché hanno frequentato di più. La stragrande maggioranza (oltre l'80%), inoltre, intende proseguire gli studi: un dato su cui occorrerebbe riflettere prima di avviare una nuova riforma che distingua più nettamente tra chi intende fermarsi al triennio e chi intende proseguire.

In secondo luogo, la mobilità sociale in termini formativi rispetto alle famiglie di origine sembra incidere di poco sulle disuguaglianze sociali tra coetanei. La scelta della facoltà sembra ancora largamente condizionata dalla classe sociale della famiglia di origine: se nel complesso solo 9,4 neo-dottori su cento hanno entrambi i genitori laureati, ciò vale per il 20% dei laureati in Medicina, il 13% di quelli di Giurisprudenza, ma solo il 3% dei laureati (o meglio laureate) in Scienze della formazione. Perciò i laureati con origine sociale meno favorita non solo devono mantenersi più spesso agli studi, li completano in un tempo più lungo (e quindi ad un prezzo più alto) e li proseguono meno spesso dopo la laurea. Intraprendono anche corsi di studio che offrono loro meno chances nel mercato del lavoro dei loro coetanei più fortunati. Molti lavoratori-studenti, infatti, dopo la laurea mantengono lo stesso lavoro di prima, senza alcun miglioramento.

In terzo luogo, il sorpasso delle laureate rispetto ai laureati nasconde il persistere di una forte segregazione di genere nella scelta degli studi, corretta, anche in modo significativo, solo in alcuni casi. Se, infatti, Medicina, Giurisprudenza, Economia - facoltà tradizionalmente maschili - oggi vedono una presenza più equilibrata dei due sessi, ed anche Agraria negli ultimi anni ha visto un incremento notevolissimo delle iscritte, Ingegneria continua ad avere solo poco più del 17% di laureate, che sono minoritarie anche nelle Scienze, mentre fra i laureati di Scienze della formazione e di Lingue e letterature straniere i maschi arrivano a mala pena al 10% e sono il 26% dei laureati in Lettere e il 17% di quelli in Psicologia. In generale la presenza femminile nei corsi di studio è inversamente proporzionale alla loro spendibilità nel mercato del lavoro. E' una segregazione che rischia di riprodursi anche nelle nuove lauree triennali, confermando la forza di modelli di appropriatezza di genere e di formazione delle preferenze profondamente radicati.

E' quindi la segregazione delle scelte formative, e le aspettative verso il tipo di lavoro che si desidererebbe fare che queste rappresentano, ad essere in larga parte responsabile delle diverse chances professionali di laureati e laureate sia ad un anno che a cinque anni dalla laurea, come hanno rilevato sia una precedente indagine ISTAT che un'altra indagine Almalaurea.

Tuttavia la diversità delle chances professionali tra uomini e donne si presenta anche all'interno dello stesso gruppo di lauree, sia ad un anno che a cinque anni dalla laurea: a parità di tipo di laurea e nonostante il curriculum più regolare e con voti migliori, le donne sono meno occupate degli uomini, hanno contratti più precari e guadagnano di meno. Il divario massimo si raggiunge tra i laureati maschi del Nord e le laureate del Sud. «Fare la scelta formativa giusta» quindi non è sempre sufficiente, perché si scontra con stereotipi di genere nel mercato del lavoro e nella società, come emerge anche dalla preoccupazione che sta emergendo per la femminilizzazione di talune professioni, come medicina. Come se viceversa la loro mascolinizzazione fosse nell'ordine naturale delle cose.

La persistenza di queste forme di disuguaglianza - di genere e di origine sociale - sia entro i percorsi universitari che nei loro esiti sul mercato del lavoro dovrebbe essere meglio messa a fuoco nei dibattiti sulle riforme e contro-riforme universitarie: per evitare che esse vengano ulteriormente cristallizzate, con esiti negativi sia sul piano dell'equità che su quello della valorizzazione del capitale umano.

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