Da La Repubblica del 13/06/2004

Il prezzo della guerra

di Guido Rampoldi

DALLA sconfitta di Aznar alle elezioni britanniche di venerdì scorso non poco è cambiato in questi tre mesi. Ma i ripensamenti dell´amministrazione Bush sull´Iraq non hanno giovato all´alleato che da tempo suggeriva a Washington una correzione di rotta, Tony Blair. Come in marzo gli elettori avevano ridimensionato Aznar, tornato un Aznarin ora imbarazzante perfino per il suo partito, così hanno sfiduciato Blair nelle ultime amministrative. Per quanto le due consultazioni avessero specificità proprie, da entrambe escono sconfitti i governi dell´Europa "giovane" cui due anni fa Rumsfeld diede il suo bacio mortale. In Spagna come in Gran Bretagna, quell´Europa non crede più ai leader che la condussero alla guerra in Iraq con motivazioni infondate e valutazioni assai ottimistiche.

S´è rotto il rapporto di fiducia che la maggioranza d´un Paese accorda al suo primo ministro. E quando si sfascia quella relazione personale e perfino emozionale con un leader, è assai difficile ricostruirla.

Per questo il fiasco del Labour nelle amministrative potrebbe essere molto più rovinoso per il premier di quanto dicessero ieri i titoli. È vero che il voto «ha punito la politica di Blair in Iraq», come scriveva il Financial Times. Ma fosse solo questo, allora avrebbe ragione il governo a sperare che da qui alle elezioni parlamentari, nel maggio 2005, l´elettorato potrebbe ricredersi. Infatti nei prossimi undici mesi è possibile che l´Iraq trovi la stabilità sufficiente perché Blair possa dire che l´invasione non è stata un´avventura scriteriata. Però è assai improbabile che il primo ministro riconquisti la credibilità di cui godeva ben oltre i confini del Labour. È stato popolare come neppure la Thatcher. Gli si riconosceva efficienza, leadership e soprattutto quella trasparenza etica che è nella migliore tradizione d´un partito nato non tanto dal marxismo quanto dal cristianesimo sociale. La sua immagine, confidavano anche i laburisti che non lo amavano, era un punto di forza del partito. Quanto più alto il piedistallo, tanto più spettacolare la caduta. Dalla guerra in Iraq è emerso un Blair minore. Non più uno statista: semmai un politico talvolta trascinato dagli eventi che avrebbe dovuto guidare. Ma anche questo forse gli sarebbe stato condonato se non fosse emerso che il suo gabinetto aveva gonfiato alcune informative ramazzate dai servizi segreti circa le armi di Saddam. Il sospetto che Blair avesse imbrogliato il parlamento per convincerlo ad appoggiare l´invasione dell´Iraq, come sostenevano perfino ministri dimissionari, gli è stato fatale. Da allora anche giornali laburisti come il Guardian hanno cominciato a ridefinire la sua statura politica e umana. È parso non tanto cinico quanto inconsistente. E meschini i brusii con i quali il suo gabinetto tenta di ridicolizzare l´ambizioso ministro del Tesoro Gordon Brown, da tempo aspirante premier. Non è sfuggito a questa revisione neppure il blairismo, che pure ha svecchiato la sinistra europea. Ci si è cominciati a chiedere se anche quello non fosse un prodotto dello spin, l´effetto, la tecnica con cui gli uomini di Blair erano soliti dare lustro ai progetti del governo, o all´occorrenza enfatizzare la pericolosità dell´arsenale iracheno fino a trasformarlo in una minaccia incombente. Così quel laburismo immaginifico, che per anni aveva affascinato le sinistre europee, è sembrato nei fatti inconcludente. Ottime intuizioni, ma scarsa capacità di tradurle. Quando si proclama che la politica estera deve rispondere anche a criteri etici, ma poi si sbloccano le vendite d´armi alla feroce dittatura uzbeka, evidentemente tra la teoria e la pratica corre una certa distanza. Quando si aumenta la spesa sanitaria del 20% in tre anni e l´assistenza migliora appena d´un misero 1,5%, vuol dire che non si è in grado di rendere davvero efficienti e agili i servizi pubblici, l´ambizione del blairismo.

Bla-blairismo, come sostengono i conservatori? Bene o male Blair ha rotto alcuni tabù della vecchia sinistra, che non da ora lo detesta. E malgrado quel suo andare a vento, resta il premier più europeista che la Gran Bretagna abbia avuto dai tempi remoti di Heath. Il problema è che sta diventando un handicap tanto per il laburismo non ortodosso quanto per l´europeismo. Se cercasse la rivincita nelle elezioni del prossimo maggio, la sua fortissima tentazione, rischierebbe la terza sconfitta consecutiva, e stavolta finale. Non tanto per l´ostilità che gli muove la sinistra tradizionale. Anche parte del New Labour non si fida più di Blair e guarda con crescente interesse ad un´altra alchimia tra sinistra e destra, quella tentata dai Liberal-democratici, i veri vincitori delle amministrative in virtù del loro nitido "no" all´invasione dell´Iraq. Chi potrebbe contenere queste spinte centrifughe è Gordon Brown, secondo gli estimatori un Blair con più sostanza.

Il ministro del Tesoro ha forti legami con i Democratici americani, minore propensione alle estroflessioni internazionali, fama d´uomo coerente e concreto. E la credibilità dissipata dal premier. Per Blair è stato per anni un fastidio, poi un´insidia, adesso un dilemma. Se Blair abdicasse in favore del suo antagonista, uscirebbe di scena come un uomo di Stato, però travolto dalla guerra dell´Iraq. Se invece perdesse anche le politiche dopo aver rifiutato di consegnare il Labour ad un probabile vincente come Brown, sarebbe ricordato soprattutto per quell´atto di piccineria. Non è una scelta facile, e l´esitazione di Blair è comprensibile. Ma stando alle urne, ormai il premier ha addosso la maledizione dell´Iraq. Sortilegio maligno o benigno, a seconda dei punti di vista. Però insidioso. Aznar nella polvere, Blair in declino, Bush non più sicuro della rielezione: nei prossimi mesi potrebbero essere azzerate le leadership che hanno condotto e sostenuto l´invasione. Non sarebbe un cattivo affare per questa parte del mondo. Quali che fossero i suoi nuovi leader, l´Occidente si mostrerebbe al mondo con un volto più credibile: il volto di democrazie liberali che hanno ancora la vitalità per punire chi tenta di manipolarle, fosse pure per una causa abbracciata in buona fede.

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