Da Corriere della Sera del 12/06/2004

I dialoghi tra il rapitore e Stefio: forse potrete fuggire

Il 4 giugno i tre prigionieri pensarono di scappare dopo avere girato un altro video

di Giovanni Bianconi

ROMA - Sugli ultimi giorni di prigionia degli ostaggi italiani, e forse sulle modalità con cui sono stati realmente liberati, c’è una parte di verità non ancora svelata che gli gli stessi ostaggi conoscono. O almeno uno di loro, che gli altri due chiamavano «il presidente»: Salvatore Stefio, il reclutatore di Agliana e Cupertino, l’unico che parlava un inglese sufficiente a dialogare con i carcerieri. Perché quel pezzo di verità ancora nascosta sta nei colloqui che Stefio ha avuto con uno dei terroristi incaricati di sorvegliare lui e i suoi compagni. Dialoghi avvenuti nell’ultima prigione, fino a poche ore prima della liberazione. «Parlavano spesso», hanno riferito ai magistrati Agliana e Cupertino, aggiungendo di non sapere che cosa si dicessero. Lui, Stefio, nel suo interrogatorio ha solo detto, un po’ confusamente, che un sequestratore gli aveva fatto intendere che poteva esserci una via di fuga. Un punto-chiave, da approfondire nei prossimi verbali, poiché quel «resistente» iracheno più dialogante e malleabile potrebbe essere lo stesso che ha venduto ai servizi segreti le informazioni utili ad arrivare alla prigione, che dopo il «blitz» è stato lasciato andare con la garanzia dell’impunità e un bel po’ di soldi.

L’idea degli ostaggi di provare a scappare dall’ultimo covo in cui sono stati tenuti, invece, l’hanno riferita tutti e tre agli inquirenti. Ci hanno pensato, decisi a rischiare il tutto per tutto, dopo che il 4 giugno i sequestratori hanno girato un video nel quale a ciascun sequestrato è stato fatto dire il proprio nome e cognome mentre mostrava il passaporto alla telecamera; più o meno la stessa scena filmata all’indomani del rapimento, quando le «Falangi verdi di Maometto» dovevano dare la prova dell’avvenuto sequestro. Stefio, Cupertino e Agliana hanno temuto, quel giorno, che fosse arrivato la fine della storia, e la fine più tragica: la loro uccisione. Perché ripetere, altrimenti, il rito delle generalità? Immaginato l’epilogo, i tre hanno provato a pianificare la fuga, forti anche - forse - delle parole dette dal carceriere che dialogava con Stefio.

Anche questo è un particolare che andrà approfondito nei prossimi interrogatori delle tre guardie del corpo, in un’inchiesta dai confini già ampi destinata inevitabilmente a imbattersi negli interrogativi rimasti tuttora senza risposta sulla liberazione degli ostaggi. La nota ufficiale diffusa ieri da palazzo Chigi per smentire il pagamento di un riscatto, infatti, chiarisce poco o nulla. A cominciare dal luogo in cui è avvenuto il «blitz» delle forze statunitensi. Il giorno stesso della liberazione l’intelligence e il governo italiani hanno riferito che il covo dei terroristi era stato scoperto «nella zona sud-est di Bagdad». Al contrario, i polacchi intervenuti per via del quarto ostaggio, l’imprenditore Jerzy Kos, dissero che la prigione era vicino alla città di Ramadi «110 chilometri a nord di Bagdad». In serata, durante uno dei tanti interventi televisivi, Berlusconi confermò la versione giunta da Varsavia. Ma ieri il governo ha ripetuto che «l’operazione è avvenuta non lontano da Bagdad, nella zona sud».

A parte questo particolare (sul quale non ci sarebbe ragione di avere versioni differenti se i fatti si fossero svolti nella scarna semplicità con cui sono stati raccontati), nemmeno la smentita ufficiale del riscatto sgombra il campo dalle domande sui soldi passati di mano per riavere i tre italiani. I servizi segreti impegnati nella ricerca di informazioni e nelle tante trattative intavolate fin dai primi giorni del sequestro, infatti, hanno certamente pagato le loro fonti. E quando è stata imboccata la pista che ha portato all’epilogo di martedì, attraverso il mediatore che ha stabilito il contatto col carceriere «traditore», altro denaro è stato «investito». All’uomo che ha permesso di arrivare alla prigione, di sapere che c’erano solo altri due «falangisti» a guardia degli prigionieri, è stato concesso di sfuggire all’arresto ma non solo: aveva chiesto - e probabilmente ottenuto - anche molto denaro e la possibilità di uscire dall’Iraq.

Tutto questo si può non chiamare riscatto, ma è certamente un prezzo pagato per far tornare a casa Stefio, Agliana e Cupertino. E nemmeno la ricompensa al «traditore» chiude il capitolo. Prima del «blitz» organizzato martedì scorso, ci sono stati altri due momenti in cui la liberazione degli ostaggi è stata data per imminente, il 20 e il 30 aprile. Nella prima occasione Berlusconi in persona si disse «in fiduciosa attesa di eventi che dovrebbero verificarsi nelle prossime ore»; ma non si verificò nulla, tanto che lo stesso premier dovette parlare di «rallentamento». Che cosa faceva immaginare la svolta imminente, ad appena otto giorni dal sequestro? E che cosa portò a nutrire le stesse speranze, andate ugualmente deluse, la sera del 30 aprile? La risposta non ufficiale sono gli aiuti portati dalla Croce rossa guidata da Maurizio Scelli, in quelle stesse ore, alla città sotto assedio di Falluja. Ma è possibile credere che una banda composta anche da un livello di manovalanza, considerato ben distinto da quello politico, fosse disposta ad accontentarsi dei convogli umanitari?

In quei giorni almeno due giornali molto vicini al governo di centro-destra parlarono di riscatto (uno scrisse di 5 milioni di euro sborsati personalmente da Berlusconi) senza ricevere alcuna smentita. Nelle trattative proseguite a maggio attraverso gli intermediari individuati dall’intelligence, il pagamento dei soldi richiesti era considerato un impegno già onorato. Finché non sono giunte le richieste del «traditore», l’uomo sul quale Salvatore Stefio potrebbe forse dire qualcosa di più.

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