Da Corriere della Sera del 10/06/2004

«Un rapitore parlava a stento l’italiano»

Il racconto ai pm: «Dicevano che ci avrebbero uccisi. Li abbiamo visti in faccia». Tracciati due identikit

di Giovanni Bianconi, Flavio Haver

ROMA - La paura, naturalmente, era quella di morire. «Ci dicevano che se le loro richieste non fossero state esaudite ci avrebbero ammazzato, come avevano fatto con i sequestrati di altre nazionalità coinvolte nella guerra», raccontano Maurizio Agliana, Umberto Cupertino e Salvatore Stefio, finalmente ex ostaggi, ai magistrati romani che li interrogano nel primo pomeriggio, subito dopo il ritorno in patria. «Questo soprattutto all’inizio - continuano - anche se noi cercavano di spiegare che in Italia non eravamo nessuno, che uccidendo noi non avrebbero ottenuto granché perché non rappresentavamo alcuna autorità. Erano convinti che fossimo dei Servizi segreti, noi gli abbiamo che non era così». Forse dopo un po’ se ne sono convinti anche i sequestratori, «e verso la fine ci dicevano che prima o poi ci avrebbero liberati. Ma non succedeva mai, finché ieri...». Sono verbali forse più «emotivi» che «investigativi», quelli sottoscritti separatamente dagli ex ostaggi davanti ad altrettanti magistrati della Procura di Roma. La stanchezza e lo stress accumulati non consentono un resoconto approfondito di antefatti, sequestro, prigionia e liberazione al primo interrogatorio. Altri ne verranno. Per adesso c’è un racconto collettivo e complessivo che sostanzialmente coincide nelle tre versioni (non sono state riscontrate differenze significative), dal quale emergono delle sensazioni oltre che alcuni dettagli della brutta avventura. Come quella sulla sorte di Fabrizio Quattrocchi, il quarto sequestrato ucciso due giorni dopo il rapimento: «Quando abbiamo chiesto dov’era ci hanno risposto che lo avevano liberato. In ogni caso, rispetto alla diversità di trattamento, abbiamo immaginato che con lui si fossero comportati in modo differente perché era l’unico di noi ad avere la tessera rilasciata dalle forze della Coalizione, quella per l’accesso alla zona verde di Bagdad».

I dialoghi con gli uomini delle «Falangi verdi di Maometto» avvenivano sempre in inglese: «Tra i rapitori e i carcerieri non c’era nessun italiano. Solo uno, tra i tanti che si sono avvicendati, capiva un po’ di italiano e lo parlava stentatamente. E quando abbiamo registrato i video non era lui che controllava quanto dicevamo. Il testo del messaggio che dovevamo lanciare davanti alle telecamere - precisa in particolare Stefio, il sequestrato che per due volte abbiamo visto parlare nella propria lingua davanti alla telecamera dei sequestratori - mi veniva indicato poco prima della registrazione, in inglese, e io mi sono attenuto alle istruzioni perché temevo che prima di inviare la videocassetta la potessero far vedere a uno che capiva bene l’italiano; se avessi detto cose diverse, o lanciato altri messaggi, quelli potevano uccidermi».

Il rapimento è avvenuto lunedì 12 aprile, a un finto posto di blocco, quando Fabrizio Quattrocchi stava accompagnando Stefio, Agliana e Cupertino verso Amman, perché potessero prendere la via dell’Italia; lui invece sarebbe dovuto tornare a Bagdad. «Paolo Simeone (il "reclutatore" di guardie private amico e collega di Quattrocchi, ndr ) aveva chiamato me - dice Stefio -, e io avevo chiamato Agliana e Cupertino. Il contratto doveva essere per un periodo di lavoro lungo, ma poi lì abbiamo scoperto che invece sarebbe stato breve, e dunque decidemmo di rientrare; il lavoro prevedeva la sorveglianza di un hotel dove risiede personale civile americano. Una volta partiti ci siamo resi conto che non avevamo il permesso per il trasporto di alcune armi che tenevamo con noi, e quindi siamo tornati indietro. Ripartiti, poco fuori Bagdad abbiamo visto sulla strada un posto di blocco; non era della Coalizione ma gli uomini erano armati, non potevamo fare altro che fermarci. Lì ci hanno preso, tolto le armi, e subito dopo abbiamo capito che si trattava di un sequestro».

Quattrocchi è stato separato dagli altri tre, e poi ucciso, due giorni dopo. Da allora è cominciata la prigionia vissuta in covi diversi, e con carcerieri diversi: «Abbiamo cambiato parecchie prigioni, almeno sette o otto, con spostamenti brevi fatti in macchine o furgoni, della durata di circa 15 minuti. Durante i tragitti venivamo incappucciati o bendati, e legati per le mani. Anche nelle prigioni avevamo i piedi legati, perché non ci muovessimo, e a volte venivamo bendati. Intorno a noi c’era gente sempre armata di kalashnikov, ma non li hanno mai usati, non c’è stato nessun incidente. Ci minacciavano, certo, ma non abbiamo subito percosse. Violenza psicologica, ma non fisica. E siamo stati rinchiusi sempre all’interno di case, appartamenti. Ci hanno concesso di lavarci una volta con una doccia e ci hanno lavato una volta i vestiti. Mangiavamo poco, mentre ogni volta che chiedevamo il tè ce lo davano. Effettivamente abbiamo sofferto la fame...».

Dal trattamento, i dettagli si spostano sui carcerieri: «Alcuni erano incappucciati, altri a volto scoperto e abbiamo potuto vederli in faccia. Alcuni erano più giovani di altri, qualcuno sembrava un ragazzo; c’era chi appariva esperto in quel che stava facendo e chi meno. Di giorno ci controllavano in tre o quattro, di notte invece aumentavano, fino a una decina. In tutto, avremo avuto a che fare con una sessantina di persone. Non sappiamo dire se appartenevano a gruppi o fazioni diverse, di questo non ci hanno mai parlato, così come non ci dicevano nulla di quello che accadeva fuori dalle prigioni in cui eravamo segregati». Questo è quel che c’è nei verbali, ma altri racconti fatti ieri dai tre riferiscono di qualche notizia filtrata dall’esterno e fatta giungere agli ostaggi: per esempio la decapitazione video-registrata dello statunitense Nicholas Berg, di cui i sequestratori avrebbero parlato ai sequestrati non per minacciarli della stessa sorte, ma per dire che loro non lo avrebbero fatto. Oppure che in Italia non ci si muoveva adeguatamente per la liberazione degli ostaggi, considerazione condita con esplicite dichiarazioni di ostilità contro il premier Berlusconi e il suo governo. «Ma a quello che ci raccontavano, in generale, non credevamo», aggiungono ora gli ex ostaggi.

Dalle descrizioni dei carcerieri fatte davanti ai magistrati e ai tecnici dei carabinieri sono venuti fuori un paio di identikit che ora si cercherà di utilizzare nell’indagine. A verbale, c’è anche il racconto dell’ultima fase e delle ritrovata libertà: «Negli ultimi giorni, nell’appartamento dove ci sono venuti a prendere, è arrivato anche un altro ostaggio, di nazionalità polacca. Non abbiamo avuto la sensazione che stesse per accadere qualcosa di particolare finché ieri (martedì, ndr ), a un certo momento, abbiamo sentito un rumore di elicottero sopra le nostre teste. Poi dall’esterno sono arrivati altri rumori, come di un trambusto, forse degli spari, un po’ in lontananza. Finché la porta della stanza dove eravamo chiusi non è stata sfondata, e una voce, evidentemente di un americano, ha cominciato a gridare "Go! Go!", andiamo, andiamo. Siamo usciti e abbiamo trovato questi che ci hanno detto che eravamo liberi. Poi ci hanno caricato su un elicottero e dopo pochi minuti eravamo in città, dove abbiamo visto i primi italiani».

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