Da Corriere della Sera del 05/06/2004
Originale su http://www.corriere.it/Primo_Piano/Politica/2004/06_Giugno/05/stella.shtml

E la città vince la rabbia degli incapucciati

di Gian Antonio Stella

ROMA - Cercavano le manganellate, cercavano. E non solo i poliziotti e i carabinieri ma anche tanti pacifisti in corteo e italiani frementi d’indignazione davanti alla tivù devono aver sentito il prurito alle mani per la voglia di accontentarli, quei venti o trenta teppisti che urlavano quello slogan indecente: «Dieci, cento, mille Nassiriya». Ma neanche quello sfregio infame, urlato in faccia a tanti ragazzi in divisa chiamati a tenere i nervi saldi, è riuscito a incendiare la giornata più a rischio degli ultimi mesi. Se c’era qualcuno che cercava il replay del G8 di Genova, dall’una o dall’altra parte, ha perso ieri la scommessa. Merito delle forze dell’ordine, del ministro degli Interni Beppe Pisanu, del prefetto Achille Serra, del sindaco Walter Veltroni. I quali hanno tenacemente seguito, giorno dopo giorno, il binario che si erano ripromessi: il massimo della fermezza, il massimo del dialogo. Ma merito anche dei manifestanti. Che non solo sono stati alla larga da ogni provocazione ma si sono fatti carico due o tre volte di sbatter fuori dal corteo, anche a spintoni e calci nel sedere come a piazza Venezia e in viale Aventino, un po’ di incappucciati neri dalla faccia coperta: «Fuori! Sparire! Provocatori! Andate via!».

Certo, non sono mancati alcuni episodi di violenza. Fin dalla mattina quando, sbarcati dal treno dopo un viaggio interminabile a causa di un ritardo di quattro ore dovuto anche al fatto che molti si erano rifiutati di pagare il biglietto («esproprio ferroviario»), si sono affacciati su viale dell’Università duecento o più disobbedienti nordestini con in testa lui, Luca Casarini. Il leader degli antagonisti più duri che prima del G8 genovese consegnò solennemente a un agente della Digos una lettera alle autorità che diceva «vi dichiariamo formalmente guerra» e che teorizza da sempre l’illegalità di massa come una strategia «fondamentale per cambiare le cose dai tempi degli assalti ai forni».

Slogan durissimi, volti paonazzi dalla tensione, occhi febbricitanti che spuntavano da una cinquantina di volti mascherati.

La grande paura, quella che nei giorni scorsi aveva seminato tante inquietudini e fatto lanciare tanti allarmi, sia a destra sia a sinistra, fino a far strillare al berlusconiano «Il Giornale» il titolo «Arrivano i nostri, panico nell’Ulivo» e all’«Unità» un titolo opposto che diceva «Berlusconi spera nella violenza», si sarebbe però via via stemperata. Fino a un bilancio serale che, al di là degli scontati battibecchi tra la Casa delle Libertà e l’Ulivo, spaccatissimi nella valutazione dei singoli episodi registrati, ha fatto tirare a tutte le persone di buona volontà un sospiro di sollievo.

Riepilogo: un paio di petardi da stadio lanciati contro le finestre della Scuola di guerra aerea dell’Aeronautica militare in piazzale Aldo Moro (lancio benedetto da Casarini come «una sanzione dal basso contro chi insegna a bombardare la popolazione civile»), tre o quattro di cassonetti incendiati per bloccare un paio di strade, qualche tafferuglio di poco conto con gli agenti, lo sportello di un bancomat e qualche vetrina imbrattati. Fine. Episodi inaccettabili, certo. Da censurare, certo. Ma secondari: neanche un ferito, neanche un fermato. Tanto da spingere un uomo al di sopra di ogni sospetto di simpatie no-global, Claudio Scajola, il ministro degli Interni delle tormentatissime giornate di Genova, a congratularsi con parole che non lasciano margini di ambiguità: «È stata una giornata tranquilla».

C’erano bambini sulle spalle delle mamme e cani bardati di slogan anti-militaristi portati a spasso dalla padrona avvolta in una bandiera tricolore e angeli bianchi che svolazzavano sui trampoli e «pink-bloc» vestiti e pitturati di rosa e sposi in tight e abito bianco che sventolavano una poesia di Majakovskij («Battete in piazza il calpestio delle rivolte! / In alto, catena di teste superbe!»), e poi rasta e sessantottini incanutiti e verso la fine si è affacciato perfino, con un cappello largo un ettaro, il mitico Vincent Schiavelli, il caratterista americano dalla faccia sghemba reso immortale dalla scena nella metro di «Ghost». E altri americani ancora, che si firmavano «statunitensi contro la guerra» e portavano uno striscione con scritto «Not in my name», non a nome mio. E ancora italiani filo-americani critici con cartelli che dicevano: «Con Roosevelt, contro Bush».

E quello portava un manifesto con scritto «Affittasi prigionieri da torturare / telefonare Ambasciata Usa» e quell’altro invocava «Una Norimberga per Bush» e quell’altro ancora reggeva alto a due mani un cartone che, con un gioco di parole che accoppiando il presidente americano e il capo del governo israeliano, diceva: «Busharon=terroristi». E a mettere tutti insieme gli slogan e i canti e gli striscioni di astio contro la politica statunitense in Iraq, potevi veder scorrere tutta la ferraglia anti-americana ereditata dalle manifestazioni a favore del Vietnam, a cominciare da «Dall’Iraq alla Palestina, un solo grido: America assassina» fino al sempreverde «Yankee go home».

Ma anche a sommare quelli con l’indegno slogan su Nassiriya e i razzi e i cassonetti e tutto il resto, sarà difficile anche per i più ostili negare come il corteo di ieri, cento o duecentomila che fossero i presenti e nonostante i foschi nuvoloni dipinti da chi si aspettava il peggio, è stato soprattutto dominato da qualcosa d’altro. La voglia di tanti di stare insieme manifestando senza violenze il loro radicale dissenso dalle scelte dell’attuale governo americano in Medio Oriente e dalla politica di appoggio di Palazzo Chigi. Le canzoni di Rino Gaetano a partire da «Il cielo è sempre più blu!». L’ironia di alcune parole d’ordine fulminanti e irridenti doppi sensi: «Bush, testa di razzo», «Bushardo te e tutti l’amichi tua», «Bushetta, pentiti!».

Immortale, fra tutti, un finto pasticcere con camice e cappello che sfilava reggendo un vassoio di frittelle: «Se piovessero le nostre bombe / certo non sarebbe un’ecatombe / Perché non c’è nessuno che trema / davanti a una bomba alla crema».

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