Da Corriere della Sera del 01/06/2004

Il kolossal catastrofico sul clima turba i sonni di George Bush

I democratici guidati da Gore cavalcano «The day after tomorrow» Ma anche tra i repubblicani avanza una nuova linea sull’ambiente

di Massimo Gaggi

NEW YORK - «Niente da dire, non siamo critici cinematografici». Lo staff della Casa Bianca dà sempre la stessa, laconica risposta ai giornalisti che chiedono un commento su The day after tomorrow , film apocalittico di Roland Emmerich arrivato sugli schermi nel weekend dopo un mese di battage pubblicitario: repentini sconvolgimenti climatici indotti dal riscaldamento dell’atmosfera distruggono la vita in tutto l’emisfero settentrionale del Pianeta, inondato dagli oceani e poi ricoperto di ghiaccio. Un trionfo di effetti speciali e un atto di accusa contro il presidente Bush che di global warming non vuole nemmeno sentir parlare. Al punto che l’Epa, l’agenzia federale per la Protezione ambientale, ha tolto dal suo rapporto annuale il capitolo sui mutamenti climatici. Per non offendere la Casa Bianca, accusano gli ambientalisti.

Tocca allora agli intellettuali conservatori del Cato Institute, mettere alla berlina un film che effettivamente non ha alcuna attendibilità scientifica e ironizzare sulla sceneggiatura tratta da un racconto di fantascienza scritto da due ufologi. «Se Al Gore e i produttori di questo film si affidano a gente che crede agli Ufo e agli alieni, sono proprio nei guai», dice Richard Pollack, portavoce del think tank liberista. Già, perché i democratici hanno deciso di cavalcare politicamente questo film, peraltro prodotto dalla 20th Century Fox di Rupert Murdoch, grande supporter di Bush: l’ex vicepresidente Al Gore, nel primo di una serie di discorsi sull’ambiente appositamente inseriti nel calendario delle manifestazioni elettorali, ha detto che il film di Emmerich, benché privo di valore scientifico, ha il grande merito di spingere la gente a porsi domande sulla sostenibilità dei gravi fenomeni già in atto, che la Casa Bianca si ostina a ignorare.

Sui temi della difesa dell’ambiente e dell’effetto-serra, effettivamente la linea di Bush continua ad essere quella di minimizzare il problema e di difendere la scelta di non aderire al protocollo di Kyoto, considerato poco efficace per quanto riguarda la riduzione delle emissioni di biossido di carbonio e troppo penalizzante per l’economia americana. Il tutto - a differenza di quanto accade, ad esempio, con la politica estera - senza mai alzare la voce o fare proclami: quando le proteste montano, ci si rannicchia in una buca aspettando che la tempesta mediatica si plachi.

Ha funzionato persino quando, nel febbraio scorso, gli esperti del Pentagono presentarono un rapporto drammatico sugli effetti dei cambiamenti climatici, arrivando a prevedere per i prossimi decenni carestie, migrazioni di interi popoli e guerre: dapprima si tentò di seppellire il documento in un cassetto senza nemmeno sottoporlo al segretario alla Difesa, Rumsfeld. Fatto arrivare da mani ignote a due settimanali, l ’Observer e Fortune , il rapporto fece scalpore in tutto il mondo. Per 72 ore. Poi è tornato nel cassetto. Gli ambientalisti sanno che questa è la tecnica e sono furenti: «Non solo questa Amministrazione ignora il problema dei mutamenti climatici indotti dall’uomo: da tre anni a questa parte ha distrutto metodicamente i sistemi di monitoraggio ambientale che erano stati creati presso i Dipartimenti degli Interni e dell’Agricoltura fin dai temi dell’Amministrazione Nixon», accusa sulla New York Review of Books , l’ecologista Bill McKibben.

Col film del regista di Independence day le cose potrebbero andare nello stesso modo: superata la curiosità iniziale, esaurite le polemiche, The day after tomorrow potrebbe tornare ad essere solo un altro kolossal del filone catastrofista, un campione d’incassi. In fondo i ragazzi che affollano le sale di proiezione digitale del Loews di Lincoln Square, sono rapiti dalla fantasia visionaria di Emmerich - tempeste provocate dallo scioglimento dei ghiacci che radono al suolo mezza Los Angeles mentre un’onda oceanica spazza le strade di Manhattan - ma sono anche abbastanza scanzonati: sbuffano per la povertà dei dialoghi, si danno di gomito quando un mercantile russo abbandonato dall’equipaggio si infila nella Quinta Strada, arenandosi su alcune carcasse di autobus davanti alla Public Library, ridono di gusto quando il Messico si prende la sua rivincita minacciando di respingere gli americani in fuga oltre il muro costruito al confine per bloccare il flusso di clandestini latinos verso gli Stati Uniti.

Ma è anche possibile che Bush si ponga per la prima volta seriamente il problema di una correzione di rotta: non per questo film - anche se attorno ad esso gli ambientalisti stanno costruendo una grossa campagna di informazione - né per gli attacchi dei democratici. E’ lo stato d’animo degli americani che sta cambiando.

Fino a qualche tempo fa i sondaggi dicevano che i cittadini erano preoccupati per l’inquinamento ma non erano disposti a fare alcun sacrificio economico per combatterlo. Per questo i consiglieri politici del presidente hanno sempre preferito lasciare il problema sullo sfondo. Ora si fa strada una diversa consapevolezza. Non perché ci si preoccupi delle città che si stanno svuotando in Pakistan o nello Yemen per l’esaurimento delle falde acquifere: ad allarmare è il livello delle emissioni inquinanti, soprattutto quelle prodotte dalle centrali elettriche a carbone, che gravano su alcune grandi aree urbane e stanno soffocando diversi parchi nazionali. Così alcuni Stati dell’Unione hanno cominciato a darsi localmente norme e limiti che Bush non ha voluto introdurre a livello federale. Al Massachusetts - che ha imboccato questa strada già da tre anni, seguendo l’esempio delle province orientali del Canada - si sono uniti di recente California e Oregon. Difficilmente un obiettivo come quello di ridurre del 12 per cento in dieci anni le emissioni di gas serra potrà essere conseguito con iniziative locali. Ma si è messo in moto un processo che, a certe condizioni, potrebbe non essere ostacolato dall’establishment economico. In due recenti seminari dell’Aspen Institute e del Pew Centre che studia i mutamenti climatici, dirigenti dell’industria petrolifera, di quella automobilistica e del settore minerario hanno riconosciuto che un programma di riduzione delle emissioni di gas serra è necessario e che può essere realizzato in modo politicamente ed economicamente sostenibile. E molto graduale nei contenuti, ma politicamente dirompente, è la legge che John McCain ripropone in questi giorni al Congresso. Il senatore repubblicano «dissidente» aveva cercato già alla fine dello scorso anno di introdurre limiti federali alle emissioni di CO2. Allora la legge fu bocciata dal Senato; i voti favorevoli furono appena 43. Ora McCain ci riprova insieme al democratico Joseph Lieberman, puntando anche sull’impatto emotivo del film.

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