Da Corriere della Sera del 31/05/2004

Follini: Silvio sbaglia, un capo non si comporta così

Il leader dei centristi: sono pigro e timido. La mia faccia sui cartelloni elettorali? Un po’ di vergogna, poi mia figlia mi ha rassicurato

di Aldo Cazzullo

Marco Follini è quello che rischia di più. Per la prima volta, lui nato schivo e democristiano, autore di sei saggi tutti sulla Dc e sul moderatismo, ha messo la faccia sui cartelloni da sei metri per tre. «Quando li ho visti mi sono un po' vergognato. Poi mia figlia Claudia mi ha detto: papà stai bene, anche se stavi meglio sui manifesti con me a cavalcioni che hai fatto la volta scorsa». La volta scorsa, nel 2001, Silvio Berlusconi aveva raccomandato ai candidati: niente foto vostre, solo mie. Follini aveva disobbedito, come fa spesso; almeno quando può, nelle piccole cose. Ora però il rischio è grande, non ci sono collegi sicuri ma sondaggi incerti. «Non vorrei sopravvivere a un risultato deludente» dice Follini. Berlusconi lo sa. Non l'ha mai avuto in simpatia, fin da quando lo incontrò nell'anticamera di Toni Bisaglia, e il leader doroteo fece passare prima l'allievo anziché l'imprenditore delle tv. I democristiani dell'Udc sono gli alleati più molesti per il Cavaliere, ad esempio perché gli impediscono di abolire la par condicio e il divieto di spot elettorali. Erano loro il bersaglio dell'invettiva congressuale: non votate i partiti piccoli. «Ma il leader di una coalizione non dovrebbe comportarsi così. Vedo che Berlusconi continua a citare De Gasperi. Lui il 51% dei seggi l'aveva per davvero, eppure si preoccupava di stringere alleanze. Per le Europee mi auguro che vadano bene tutti gli alleati, e che gli elettori diano torto a Berlusconi solo quando ci definisce un piccolo partito».

In realtà sarà durissima, e Follini lo sa. Rischia perché i democristiani sono abituati a trovare sui manifesti lo scudo crociato e non i suoi occhiali; perché se il suo partito aveva un pregio era l'assenza di leaderismo, il connubio tra l'esperienza del ceto politico e quella certa impersonalità del moderatismo italiano, tutti capi quindi nessuno. «Mi hanno spiegato che non potevo fare diversamente. Però i miei manifesti sono tutti bianchi, non colorati come gli altri». Non poteva fare diversamente perché Casini si è defilato - «una scelta istituzionale in linea con la nostra cultura politica» - e perché i grandi vecchi democristiani hanno disertato. Cossiga? «Ci siamo incontrati, abbiamo discusso di una sua candidatura. Poi ho ricevuto una lettera, indirizzata a Harry Potter, in cui mi spiegava più o meno che non intendeva andare allo scontro con Berlusconi». Andreotti, fondatore di Democrazia europea, in teoria confluita nell'Udc? «Vado a trovarlo ogni tanto nel suo studio di piazza San Lorenzo in Lucina. Non voglio forzargli la mano: distinguo i monumenti dalla quotidianità. So che consiglia ai suoi uomini di osare di più, di smarcarsi da Berlusconi». Cirino Pomicino? «Abbiamo rotto subito, fin da quando un anno e mezzo fa mi sono opposto al suo ingresso in direzione». D'Antoni? «Lui invece è rimasto al nostro fianco fino a cinque minuti prima di passare con il centrosinistra, dopo essersi distinto per l'insistenza con cui chiedeva un ministero. Un episodio di trasformismo di cui preferisco essere vittima piuttosto che beneficiario».

Il peso dell'eredità democristiana è tutto sulle sue spalle. Figlio di un giornalista legato a Moro, già leader dei giovani dc (il vice era Casini, da cui la battuta attribuita a Bisaglia: «Ho due figli, uno intelligente uno bello»), Follini lavora per ricostruire le radici recise da Tangentopoli. Ad esempio in Toscana, dove l'altro giorno ha percorso l'Aretino, incoraggiato a Pieve Santo Stefano i militanti che fonderanno la prima sezione Udc intitolata ad Amintore Fanfani, incontrato in pubblico il figlio di Brunello Bucciarelli Ducci, ex presidente della Camera e braccio destro del «cavallo di razza». E' un viaggio nell'Italia profonda cui la Dc manca, un'Italia minoritaria che conserva il gusto per le forme e apprezza la riservatezza, la cautela, quel poco di ipocrisia che salva il mondo, da rimpiangere nel mondo nuovo che non nasconde i vizi ma li rivendica. Follini della Dc rappresenta il volto sorridente, innovatore, chi lo conosce lo descrive come una delle persone migliori tra coloro che fanno politica, e proprio per questo dispiace talora vederlo mettersi in posa davanti alla telecamera, porgere la battuta programmata, sorriderne compiaciuto come uno Schifani buono. «E' un tributo alla modernità - si giustifica -. Sono legato alla storia della Dc, però non posso mica presentarmi come il nipotino di Rumor. La politica è così, mi costringe a fare i conti con due caratteristiche cui sono molto legato, la timidezza e la pigrizia».

Pigro non proprio, visto che la sera stessa è partito per la Sicilia: duemila persone lo attendevano alla Fiera del Sud di Siracusa a un comizio con Totò Cuffaro, il presidente della Regione indagato per mafia. Imbarazzi? «No. Ci siamo conosciuti da ragazzi, siamo cresciuti insieme, lui è stato dirigente dei giovani dc dopo di me. Abbiamo avuto lo stesso maestro, Franco Bruno. Su Totò metto la mano sul fuoco». Resta il dubbio che Cuffaro e metà partito obbediscano a Berlusconi anziché a lui. «Storie passate. E' chiaro a tutti che un conto è ritrovarsi uniti nel partito Popolare europeo, un conto è farsi fagocitare da Forza Italia magari nell'illusione di comandare a casa d'altri. Queste elezioni sono un passaggio decisivo, la scelta dell'identità è fatta, la mia generazione è in campo». Se riesce, Follini diventa il primo tra pari in un gruppo di moderati insofferenti dell'egemonia berlusconiana e dei democristiani succubi, Volonté che fa campagna nelle discoteche in polemica con Giovanardi, Tabacci che presiede la commissione attività produttive della Camera quasi da oppositore mentre D'Onofrio schiera la pattuglia dei senatori compatta con il governo. Se Follini fallisce, avrà vinto non tanto Berlusconi quanto un'altra Italia, quella per cui la politica è incompatibile con la gentilezza, quella che al suo sorriso timido preferisce il ghigno di La Russa o il cipiglio di D'Alema. «E' il momento di contare le formichine, i fili d'erba». Ci sono ancora, ma quasi invisibili.

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