Da Corriere della Sera del 28/05/2004
Uno dei leader della guerriglia: «Senza di noi non finirà il conflitto». E il comandante del Jem accusa Khartum
Nel Darfur, dimenticato dalla pace
In Sudan raggiunta un’intesa tra ribelli e governo. Ma a Ovest è emergenza umanitaria
di Massimo A. Alberizzi
TONTOBAI (Sudan Occidentale) - «Senza di noi non ci sarà pace in Sudan, l’accordo che sta per essere firmato tra governo di Khartum e i ribelli del Sudan People Liberation Army non ci convince. Un trattato di pace globale dovrebbe coinvolgere anche noi». Questo diceva qualche sera fa davanti a un fuoco acceso in mezzo al deserto il comandante Mussa Tagleddin, uno dei leader politici dello Sla (il Sudan Liberation Army), gruppo che combatte in difesa delle popolazioni del Darfur. E questo ha ripetuto ieri, alla notizia che l’accordo era stato firmato nella notte tra mercoledì e giovedì a Naivasha, in Kenia.
Il trattato (la pace vera dovrebbe essere firmata a Washington ai primi giorni di giugno) pone fine a una guerra durata 21 anni, con due milioni di morti e un numero incalcolabile di feriti, che ha sconvolto il Sudan meridionale. Prevede una grande autonomia per il Sud del Paese; una divisione dei guadagni provenienti dallo sfruttamento dei pozzi di petrolio (il 50 per cento dei 250 mila barili al giorno andrà al governo arabo e islamico del Nord, il 50 per cento agli animisti e cristiani del Sud); una limitazione alla sharia (la legge islamica) nel Nord del Paese e l’esclusione della sottomissione per i non musulmani che vivono a Khartum, la capitale; un referendum tra sei anni per determinare se il Paese deve restare unito o deve spezzarsi in due; un diverso sistema monetario tra Nord e Sud.
Il governo arabo-militar-islamico del presidente Omar Bashir, al potere dal 1989, rinuncia (poco in verità) ad alcune sue prerogative; il Sudan People Liberation Army del leader guerrigliero John Garang guadagna qualcosa, ma non tutto ciò che voleva. Vince soprattutto l’amministrazione Usa che questo accordo ha perseguito con determinazione (Bush intende utilizzarlo in campagna elettorale) e anche la diplomazia italiana che ha spesso rincorso e riportato al tavolo delle trattative protagonisti riottosi e insofferenti che abbandonavano le riunioni.
Troppo presto per dire se l’accordo realmente terrà. Non tutti i protagonisti sono soddisfatti. Per esempio, il fatto che non sia stato accettato il principio di Khartum capitale di tutti senza sharia (almeno in un quartiere) scontenta quanti hanno fatto ingenti investimenti immobiliari nelle zone che dovevano essere sottratte alla legge islamica e che si prevedeva dovessero moltiplicare il loro valore.
Resta poi irrisolto il problema del Darfur, la regione occidentale dove da un anno è in atto, come denuncia l’organizzazione Human Rights Watch, un «vero e proprio genocidio». I leader dei due movimenti di guerriglia del Darfur, lo Sla e il Jem (Justice And Equality Movement), non hanno partecipato alle trattative di pace e non sembra in tempi brevi possano sedersi al tavolo con il governo, almeno finché non sarà chiara la volontà di Khartum di bloccare i sicari che stanno massacrando le popolazioni africane. «Le milizie arabe Janwaweed sono addestrate e armate dal governo di Khartum e hanno l’ordine di sterminare le tribù nere che vivono in queste aree da secoli, distruggendo e bruciando i villaggi», spiega Osman Adan, comandante del Jem, mostrando le rovine di Tontobai, assalita solo due giorni fa. La pulizia etnica ha provocato la fuga della popolazione, che in parte si è rifugiata in Ciad (120 mila profughi), in parte, non riuscendo a raggiungere la frontiera, vaga nel deserto del Sudan (un milione di sfollati). Khartum è stata criticata perfino dalla Lega araba: per mesi ha negato alle organizzazioni non governative l’accesso alle zone più colpite, e solo da qualche giorno, dopo fortissime pressioni internazionali, ha abolito i permessi di viaggio. E così ieri a Nyala, nel Darfur meridionale, è arrivato il primo cargo della cooperazione italiana. «Medicinali, tende, generatori, biscotti energetici, cisterne per l’acqua, coperte», spiega Andreina Martella, la numero due della nostra ambasciata a Khartum che è andata a ricevere il carico.
Già ieri sera i beni avevano preso la strada per i campi profughi di Kalma (25 mila ospiti) e Kass (45 mila). Le stime delle organizzazioni umanitarie parlano di 250 mila dispersi nella zona. La corsa agli aiuti sembra cominciata, ma se non si farà in fretta, rischia di essere vana: la gente sta già cominciando a morire di fame.
Il trattato (la pace vera dovrebbe essere firmata a Washington ai primi giorni di giugno) pone fine a una guerra durata 21 anni, con due milioni di morti e un numero incalcolabile di feriti, che ha sconvolto il Sudan meridionale. Prevede una grande autonomia per il Sud del Paese; una divisione dei guadagni provenienti dallo sfruttamento dei pozzi di petrolio (il 50 per cento dei 250 mila barili al giorno andrà al governo arabo e islamico del Nord, il 50 per cento agli animisti e cristiani del Sud); una limitazione alla sharia (la legge islamica) nel Nord del Paese e l’esclusione della sottomissione per i non musulmani che vivono a Khartum, la capitale; un referendum tra sei anni per determinare se il Paese deve restare unito o deve spezzarsi in due; un diverso sistema monetario tra Nord e Sud.
Il governo arabo-militar-islamico del presidente Omar Bashir, al potere dal 1989, rinuncia (poco in verità) ad alcune sue prerogative; il Sudan People Liberation Army del leader guerrigliero John Garang guadagna qualcosa, ma non tutto ciò che voleva. Vince soprattutto l’amministrazione Usa che questo accordo ha perseguito con determinazione (Bush intende utilizzarlo in campagna elettorale) e anche la diplomazia italiana che ha spesso rincorso e riportato al tavolo delle trattative protagonisti riottosi e insofferenti che abbandonavano le riunioni.
Troppo presto per dire se l’accordo realmente terrà. Non tutti i protagonisti sono soddisfatti. Per esempio, il fatto che non sia stato accettato il principio di Khartum capitale di tutti senza sharia (almeno in un quartiere) scontenta quanti hanno fatto ingenti investimenti immobiliari nelle zone che dovevano essere sottratte alla legge islamica e che si prevedeva dovessero moltiplicare il loro valore.
Resta poi irrisolto il problema del Darfur, la regione occidentale dove da un anno è in atto, come denuncia l’organizzazione Human Rights Watch, un «vero e proprio genocidio». I leader dei due movimenti di guerriglia del Darfur, lo Sla e il Jem (Justice And Equality Movement), non hanno partecipato alle trattative di pace e non sembra in tempi brevi possano sedersi al tavolo con il governo, almeno finché non sarà chiara la volontà di Khartum di bloccare i sicari che stanno massacrando le popolazioni africane. «Le milizie arabe Janwaweed sono addestrate e armate dal governo di Khartum e hanno l’ordine di sterminare le tribù nere che vivono in queste aree da secoli, distruggendo e bruciando i villaggi», spiega Osman Adan, comandante del Jem, mostrando le rovine di Tontobai, assalita solo due giorni fa. La pulizia etnica ha provocato la fuga della popolazione, che in parte si è rifugiata in Ciad (120 mila profughi), in parte, non riuscendo a raggiungere la frontiera, vaga nel deserto del Sudan (un milione di sfollati). Khartum è stata criticata perfino dalla Lega araba: per mesi ha negato alle organizzazioni non governative l’accesso alle zone più colpite, e solo da qualche giorno, dopo fortissime pressioni internazionali, ha abolito i permessi di viaggio. E così ieri a Nyala, nel Darfur meridionale, è arrivato il primo cargo della cooperazione italiana. «Medicinali, tende, generatori, biscotti energetici, cisterne per l’acqua, coperte», spiega Andreina Martella, la numero due della nostra ambasciata a Khartum che è andata a ricevere il carico.
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