Da Corriere della Sera del 22/05/2004

IL PENTAGONO

Ancora guai per Rumsfeld. «Scelse i metodi duri»

di Ennio Caretto

WASHINGTON - «Il Pentagono ammette: Rumsfeld autorizzò metodi duri negli interrogatori». Il titolo del Los Angeles Times , il più esplicito tra quelli dei grandi quotidiani, rischia di essere il primo chiodo nella bara politica dell’architetto della guerra in Iraq. Il ministro della Difesa dichiara al Congresso che è ora di smetterla di parlare di torture, che bisogna concentrarsi sul passaggio dei poteri a Bagdad. Aggiunge di essere contrario alla pubblicazione delle foto e dei video dello scandalo anche perché la convenzione di Ginevra vieta di esporre i prigionieri «alla pubblica curiosità». Ma il patriottico richiamo e la improvvisa sollecitudine per le vittime non proteggono Rumsfeld e i più stretti collaboratori dai furenti attacchi dei democratici e dei media. A meno che egli non si dimetta, le immagini distruggeranno la credibilità dell'amministrazione Usa come accadde coi «Pentagon papers», i dossier segreti sulle atrocità americane in Vietnam.

In realtà, l'ammissione del Pentagono che il ministro approvò «tecniche intense» d'interrogatorio è un tentativo di ridurne le responsabilità. Funzionari anonimi dichiarano che Rumsfeld lo fece «nel tardo 2002», prima della guerra dell'Iraq, «per ottenere più rapidamente informazioni dai terroristi» a Guantánamo e in altre carceri. Ma aggiungono che ordinò la revisione degli interrogatori «all'inizio del 2003», senza spiegarne la ragione, e che adottò «metodi più morbidi» nell'aprile di quell'anno. Il quadro dipinto dai media americani è però assai diverso.

Citando alcuni generali critici di Rumsfeld, Usa Today precisa che fu una protesta formale di tre pagine degli avvocati militari del 5 febbraio 2003 a indurre il ministro al ripensamento. E sul Los Angeles Times , il primo comandante di Guantánamo, il generale Rick Baccus, denuncia le continue pressioni dell’intelligence per ignorare le leggi. Su 72 «tecniche» per indurre i prigionieri a confessare, ne rimase in vigore una decina, poi esportata in Iraq.

I retroscena confermano che fin dal principio Rumsfeld non è senza colpe. È lui a indurre il presidente Bush a privare i talebani dello status di «prigionieri di guerra» (li chiamerà «combattenti nemici») in maniera che non si avvalgano della Convenzione di Ginevra. Lo appoggiano il ministro della Giustizia John Ashcroft, che il 9 gennaio del 2002 completa un rapporto di 42 pagine su «come evitare accuse di crimini di guerra» qualora si commettano eccessi negli interrogatori, e il consigliere legale della Casa Bianca Alberto Gonzales, che il 25 successivo legittima l’esenzione degli Usa dalle norme internazionali nella lotta al terrorismo. Quando il segretario di Stato Colin Powell li critica davanti a Bush, Rumsfeld promette che «i detenuti saranno trattati coerentemente ai dettami di Ginevra». Ma due collaboratori, il consigliere legale William Haynes e il sottosegretario all’intelligence Stephen Cambone, continuano a dibattere se si possa andare oltre.

Secondo il New York Times è il successo ottenuto dalle torture di Mohamed Al Kahtani a Guantánamo a convincere l’intelligence a insistere sulle maniere forti. Si riteneva che Al Kahtani avesse informazioni-chiave sulla preparazione dell’attacco alle Torri Gemelle. Verso la fine del 2002 il prigioniero parla: di altri attentati, degli sponsor, e via di seguito. Il Pentagono smentisce che il suo trattamento «non sia stato umano». Ma gli stessi metodi saranno applicati a Khaled Sheikh Mohammed, lo stratega delle stragi. Quello che accade dopo l'aprile del 2003, al riesame di Rumsfeld degli interrogatori, non è chiaro. Ma la prima denuncia della Croce rossa delle torture in Iraq è del maggio 2003; in estate il carceriere di Guantánamo, il generale Geoffrey Miller, va in missione a Bagdad per ottenere più risultati; a settembre il capo delle operazioni militari, il generale Ricardo Sanchez, ne approva i suggerimenti.

Il finanziere George Soros è acerrimo nemico di Rumsfeld e di Bush. Ma è difficile confutare la sua conclusione che il ministro «sapeva», con l'eccezione forse delle perversioni di Abu Ghraib; che la sua difesa - «Solo 5 mesi fa appresi dello scandalo» - è insostenibile; che il Pentagono cerca d'insabbiare tutto.

Tra le righe, lo scrivono anche molti media, che lo accusano velatamente di reato d'omissione.

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