Da Corriere della Sera del 18/05/2004

IL DOCUMENTO

«Siamo accerchiati, un vecchio compagno ci aiuterà»

Un manoscritto del 2001 della Lioce trovato nell’ultimo covo: il rilancio della lotta armata non ha dato i frutti previsti. Viene proposto il reintegro di un militante storico

di Giovanni Bianconi

ROMA - L’omicidio di Massimo D’Antona, avvenuto 5 anni fa, lo chiamano «il rilancio». Con i sei colpi di calibro 9 sparati contro il professore di Diritto del Lavoro, consulente dell’allora ministro Antonio Bassolino, gli aspiranti rivoluzionari dei Nuclei comunisti combattenti decisero di irrompere sulla scena politica italiana rispolverando la vecchia sigla delle Brigate rosse. Per «rilanciare» la «lotta armata per il comunismo», appunto. Ma non andò come previsto, per loro stessa ammissione. «Il rilancio non si è affatto tradotto in un avanzamento delle forze in termini materiali. Anzi, ha prodotto dei riflessi negativi e ha sancito tutti i limiti del nostro quadro organizzativo, vuoi in termini di quadro militante, vuoi in assestamento...». Così scriveva Nadia Desdemona Lioce, uno dei capi delle nuove Br, in un documento per il dibattito interno redatto nel 2001, a due anni dal delitto D’Antona. Il manoscritto di 12 pagine è stato trovato nel deposito brigatista di via Montecuccoli a Roma, nel dicembre scorso, e gli investigatori lo attribuiscono con certezza alla donna catturata il 2 marzo 2003 sul treno Roma-Firenze, dopo il conflitto a fuoco in cui morirono il suo compagno Mario Galesi e il sovrintendente di polizia Emanuele Petri.

Il problema, per il gruppo, era quello di programmare un futuro molto incerto: «Essendo oggi particolarmente sfavorevoli i rapporti di forza generali e tra rivoluzione e controrivoluzione, la capacità individuale, materiale e politica di operare a un progetto rivoluzionario e di avere una dialettica con ambiti sociali, con altri proletari avanzati, etc., si è dissolta». Anche per questo, dopo aver subito le defezioni di almeno un paio di persone - come si intuisce da un altro manoscritto attribuito alla stessa Lioce - le Br si sono poste il problema del «reintegro» di un militante che evidentemente si era allontanato. Gli investigatori non sono riusciti a stabilire con certezza se si tratta di un ex-brigatista oppure di un ex-appartenente ai Nuclei comunisti rivoluzionari che non aveva seguito l’evoluzione degli altri compagni. In entrambi i casi, la scelta se arruolarlo o meno andava presa dopo aver valutato i pro e i contro.

«Il nostro progetto - scriveva ancora la Lioce - vive in una condizione di accerchiamento strategico... Tutto ciò che ci può dare più forza, perciò, lo dobbiamo fare». Ecco allora elencati i vantaggi della riammissione nel gruppo del vecchio compagno: «Sul piano della costruzione di un’identità storica (...) dev’essere colmato il divario tra continuità politica e discontinuità concreta, includendo un punto di vista sui processi storici che noi non possiamo possedere se non astrattamente». E ancora: «Sul piano degli strumenti tecnici e politici, in merito ai quali noi non possiamo colmare mai più certe lacune... Sul piano programmatico, perché un apporto qualificato e regolare può aumentare molto il lavoro realizzabile, anche limitandone l’impiego per ragioni di sicurezza».

Ma c’erano anche motivi per cui il «reintegro» era visto con diffidenza: «Non ci nascondiamo i rischi di confusione che ci potranno essere, perché qualsiasi elemento nuovo, in una situazione non sufficientemente organizzata, può essere destabilizzante. Anche un tempo di rodaggio può essere malgestito... Può anche darsi che da questa scelta nascano più contraddizioni di quelle che potremmo risolvere, ad esempio un rischio letale». Nel linguaggio brigatista significa che il militante di vecchia data potrebbe aprire una falla nella sicurezza interna, magari perché già «attenzionato» dalle forze di polizia che seguendo le sue mosse potrebbero avvicinarsi al gruppo. La «tenuta rispetto all’iniziativa nemica» resta una priorità per l’organizzazione, anche se all’epoca la Lioce ammetteva: con quel tipo di emergenza «ci siamo dovuti misurare ben poco».

Altri erano, nel 2001, i problemi delle nuove Br ancora del tutto misteriose per inquirenti e investigatori. Per esempio «un quadro in cui l’iniziativa (altro termine per indicare l’omicidio D’Antona, ndr ) ha avuto una buona accoglienza a livello di massa operaio, è stata accolta con indifferenza da altri settori proletari, è stata contingentata e avversata dalle componenti attive dello pseudo-movimento rivoluzionario». Il documento di rivendicazione, però, era scritto con il «linguaggio di un’elaborazione ancora immatura e su alcuni punti rilevanti nemmeno conclusiva... Costituiva la prima costruzione di una nostra posizione politica complessiva che peraltro prende a piene mani dai documenti dell’organizzazione».

Le nuove Br, insomma, si sono nutrite degli scritti dei compagni della generazione precedente. «Noi - annotava la Lioce - storicamente non siamo le Br-pcc, ma gli Ncc...». Tuttavia, «le Br-pcc appartengono al proletariato, sono state il suo strumento politico-organizzativo e la classe vi si riconosce, per cui anche la non appartenenza politico-organizzativa dà un diritto-dovere di riprenderne il cammino». Più avanti si legge che «grazie ai documenti usciti dal carcere, che sono stati la nostra base formativa e costruttiva in modo quasi esclusivo, noi ci siamo attivati e costituiti a cielo aperto, senza cioè un legame organizzativo ma solo politico; non bidirezionale ma solo unidirezionale, dal momento che non c’è mai stato scambio politico che non fossero altro che i reciproci documenti pubblici, peraltro utili nella loro relatività (ritardi, etc.)».

Secondo i magistrati che ieri hanno concluso la prima parte dell’inchiesta, il rapporto tra i br «irriducibili» della vecchia generazione e i neo-brigatisti è più stretto di come lo descriveva la Lioce nel 2001. Di qui l’avallo dato dai detenuti al delitto D’Antona e tre anni dopo, nel 2002, all’omicidio di Marco Biagi.

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