Da La Repubblica del 18/05/2004

La guerra non detta

di Lucio Caracciolo

I SOLDATI vanno al fronte sapendo di poter morire. Ma non sono disposti a morire senza sapere perché e senza nemmeno essere stati mandati alla guerra. Il sacrificio di Matteo Vanzan è tanto più doloroso in quanto figlio della retorica nostrana, impegnata a dipingere come "umanitaria" una missione bellica in un teatro fuori controllo. Le nostre truppe, braccio armato di un paese "non belligerante", sono inserite nella catena di comando di una coalizione che sta conducendo una guerra di controguerriglia. Rispondono a comandanti alleati in stato confusionale, privi anch´essi di una missione chiara. Sono nel mirino delle milizie sciite e hanno perso la simpatia degli iracheni. Non si potrebbe immaginare un contesto più gravido di rischi.

Che cos´altro deve succedere perché il nostro governo prenda sobriamente atto della realtà e si comporti di conseguenza?

Partiti in soccorso del vincitore, scopriamo che sta perdendo. Non è la prima volta, nella storia patria. Ma non era mai accaduto che ci trovassimo in mezzo a una guerra senza avere il coraggio di dircelo. Berlusconi recita imperterrito il suo rosario di frasette d´occasione. Appare in sindrome da rimozione, vittima dell´astutissima scelta di non scegliere: schierarsi con Bush senza combattere Saddam, salvo poi intervenire nel "dopoguerra" a raccogliere allori politico-mediatici e qualche appalto. Non abbiamo guadagnato né gli uni né gli altri. Seguiamo ipnotizzati la scia della superpotenza americana, un colosso ferito che procede a zigzag.

È probabile che nelle prossime settimane riusciremo a trasformare la tragedia in farsa. Le forze politiche reagiscono al disastro iracheno in base ai loro riflessi primordiali. Istinti da bassa cucina elettorale più che analisi e proposte strategiche. Proviamo a immaginare di sfuggire a questo destino. Confrontiamoci su alcune scelte utili almeno a limitare i danni.

Nel caos mesopotamico per l´Italia c´è almeno un aspetto positivo. Gli americani hanno più bisogno di noi di quanto noi abbiamo bisogno di loro. Non era mai accaduto e forse non accadrà mai più. Ma è un fatto che se l´Italia dovesse seguire l´esempio spagnolo, l´impatto sulla tenuta della cosiddetta "coalizione dei volenterosi" (o meglio, dei furbi che speravano profittare dell´immancabile trionfo americano) sarebbe devastante. Avrebbe l´effetto di un "rompete le righe" che lascerebbe sul terreno, insieme agli americani, forse solo gli inglesi e i guerrieri privati. Ammesso che gli stessi angloamericani non decidessero di levare le tende.

È il momento di utilizzare la nostra risorsa estrema. Ora o mai più. L´Italia dovrebbe prendere atto che la missione non è più spacciabile per "umanitaria" e che gli Usa non hanno una strategia. Non ha senso "mantenere la rotta" perché la rotta non esiste. Se è davvero amico degli americani, Berlusconi può profittare domani del faccia a faccia con Bush per cercare di risvegliarlo a queste realtà.

Finora il governo ha dato per scontata la nostra presenza sul terreno. Così indebolendo la sua posizione negoziale nei confronti degli Usa. Quanto all´opposizione, al solito divisa sulle questioni che contano, sembra oggi inclinare per il ritiro. Punto e basta. Come se con ciò risolvessimo il problema iracheno. Come se il terrorismo jihadista fosse un´invenzione della propaganda americana. Come se potessimo tornare agli affari di casa nostra con il Medio Oriente in fiamme e l´arcipelago islamico in fermento.

Entrambe queste logiche, perfettamente speculari, vanno rovesciate. Berlusconi dovrebbe comunicare a Bush che il 30 giugno l´Italia ritirerà i suoi soldati. E che è disposto a rivedere tale decisione solo a determinate e non negoziabili condizioni.

Primo: offrire la copertura delle Nazioni Unite - cioè di tutte le maggiori potenze - a una missione internazionale di pace e di ricostruzione dell´Iraq incaricata di preparare elezioni più o meno accettabili entro i primi mesi del 2005. Gli americani possono e devono impegnarsi a supporto dell´intervento Onu, oggi utile ai loro stessi interessi nazionali.

Secondo: in vista di questo obiettivo, l´inviato di Annan, Brahimi, dovrebbe insediare entro il 30 giugno un governo iracheno provvisorio ma credibile. Fondamentale è emanciparlo da qualsiasi tutela americana, diretta o indiretta. Esso risponderà solo agli iracheni e all´Onu. Compito di questo governo non è di piacere a noi ma di cominciare ad assumersi la responsabilità del paese, dotandosi anzitutto di forze di polizia abbastanza autorevoli. Più larga la sua rappresentanza - compresi irriducibili baathisti, radicali sciiti e mafiosi curdi - tanto maggiore la sua presa sul territorio. Un paese dove scorrazzano terroristi e tagliagole, dominano i poteri tribali, impazzano le milizie religiose, dilaga la povertà, gli analfabeti sono maggioranza e la borghesia urbana è semidistrutta, non può essere retto dalle regole di Westminster.

Terzo: sotto la bandiera blu dell´Onu dovrebbe operare una missione militare internazionale imperniata su forze Nato e della Lega Araba. Suo il compito di vigilare sui confini esterni e sulla più calda delle frontiere interne, quella fra Kurdistan iracheno e Mesopotamia araba. In particolare, occorrerà far intendere ai curdi che i sogni di indipendenza sono da riporre nel cassetto. Non è certo il momento di accrescere il disordine geopolitico sotto il cielo incendiando anche il fronte curdo. Gli americani potrebbero così riportare a casa una parte delle truppe, badando a tenere le guarnigioni restanti nelle basi principali o di pattuglia lungo alcune frontiere. E dovrebbero ingoiare il rospo di agire sotto un comando davvero multinazionale, da affidare preferibilmente a un generale europeo della Nato. Da scansare come la peste l´ipotesi di una doppia catena di comando Onu-Nato, già fallimentare nei Balcani. Quanto alla Lega Araba, è evidente che un suo coinvolgimento è possibile solo con una svolta nella crisi israelo-palestinese. È dunque urgente almeno un inizio di smarcamento di Bush dall´abbraccio di Sharon, per recuperare parte della credibilità perduta nella regione.

Questo trittico strategico dovrebbe essere proposto dal governo al parlamento. Sarà opportuno raccogliere il più vasto consenso possibile. Se siamo in guerra - e in guerra siamo, non da oggi - la priorità è compattare il fronte interno e dare a chi combatte in prima linea il senso di avere dietro di sé la nazione intera.

Sono condizioni dure da accettare per Bush. Ma sempre migliori di Caporetto. Certo, alcuni europei - francesi in testa - appaiono attratti dall´idea di vedere gli americani bere fino in fondo l´amaro calice. Altri nel mondo - cinesi e russi, ma non solo - sperano di poter cogliere i frutti del ridimensionamento della potenza a stelle e strisce. Per noi italiani, consapevoli del fatto che una disfatta totale degli Usa sarebbe anche e forse prima la nostra, scatta in questi giorni il conto alla rovescia. Abbiamo l´occasione di prendere l´iniziativa e riportare l´Italia nel gruppo dei paesi che contano. Probabilmente perderemo questo treno per insipienza e mancanza di coraggio politico. Se mai ne ripasserà un altro, sarà fra molto, troppo tempo.

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