Da Corriere della Sera del 16/05/2004
Originale su http://www.corriere.it/Primo_Piano/Politica/2004/05_Maggio/16/folli.shtml

Divisi sull'Iraq con molti rischi

di Stefano Folli

Di fronte al dramma che stanno vivendo i suoi soldati a Nassiriya, l’Italia ha un’opportunità da cogliere: discutere del suo ruolo in Iraq, oggi e nel prossimo futuro, con asprezza ma anche con senso di responsabilità nazionale. Nella settimana in cui Silvio Berlusconi va a Washington e il Parlamento si riunisce, sarebbe la scelta più saggia. E la ragione va cercata proprio a Nassiriya, nelle lunghe ore dei combattimenti intorno alla sede del governatorato, che hanno coinvolto i nostri militari bersaglio della «guerra santa». La vicenda non è chiusa e la sta raccontando da par suo ai lettori del Corriere il nostro Andrea Nicastro. Il senso di questo cruento episodio, più grave di quanto si è voluto far credere sulle prime, è duplice. Da un lato dimostra la saldezza di nervi del nostro contingente; dall’altro rivela quanto sia alta ormai la soglia quotidiana del pericolo. La missione di pace, afferma Romano Prodi, ha cessato d’esser tale. Ha ragione, ma la pace, se vogliamo chiamarla così, è stata infranta fin dal novembre scorso, con la strage che è costata diciannove morti. Eppure allora si decise di restare, perché non si fugge davanti al terrorismo.

Che cosa è cambiato da allora? Se è vero, come viene detto, che i responsabili dell’ultima insurrezione sono miliziani estremisti che vengono da fuori città con l’obiettivo di affermare il loro potere sui notabili locali, allora restare a Nassiriya, pur consapevoli dei rischi, può avere ancora un senso. In definitiva, si tratta di restare fedeli ancora per qualche tempo allo spirito originario della spedizione: non lasciare l’Iraq alla mercé di una generale resa dei conti.

Si dirà che questa sanguinosa incertezza è il frutto avvelenato del catastrofico dopoguerra americano. E’ vero, ma è una ragione in più per non ignorare quello che avviene a Nassiriya e per ricavarne invece una lezione di realismo politico. Sfortunatamente non sarà così. Il Parlamento si avvia a dividersi a metà per ragioni più che altro elettorali e comunque già decise. Non ci sarebbe da scandalizzarsi, se non fosse che i nostri militari avrebbero bisogno di sentire alle spalle una maggiore coesione nazionale. Viceversa, l’Ulivo ha chiesto il ritiro immediato e Fassino afferma che non serve più aspettare la risoluzione dell’Onu e forse il cambio della guardia a Bagdad. Le torture americane, afferma, sono uno spartiacque. E la data del 30 giugno è diventata all’improvviso lontanissima.

Eppure non sono pochi, a sinistra, quelli che ritengono assurdo mescolare le cose. Certo, quelle disgustose immagini (vere, non artefatte) possono spostare parecchi voti verso le liste pacifiste, tuttavia un centrosinistra che aspira al governo dovrebbe essere più cauto nelle sue giravolte. Senza contraddire se stesso in modo così evidente. Si è scelto invece di ritrovare l’unità su una linea che i moderati della Lista Prodi respingevano fino a pochi giorni fa.

Quanto al governo, Berlusconi avrebbe motivo di far valere a Washington il peso dell’Italia, che nella crisi irachena è grande. Senza aver partecipato alla guerra, l’Italia ne ha pagato tutti i prezzi ed è ancora lì, nel fortino di Nassiriya. Se il richiamo alla responsabilità nazionale vale per l’opposizione, a maggior ragione deve valere per la maggioranza. Il presidente del Consiglio possiede i titoli giusti per farsi ascoltare da Bush, specie ora che s’intravede una «strategia d’uscita» dall’Iraq su cui gli alleati devono essere in grado di dire la loro. A cominciare dalla permanenza di Rumsfeld al Pentagono. Permanenza ormai inaccettabile. E non è una questione interna americana, poiché investe l’insieme della politica occidentale in Iraq e nel resto del mondo arabo. Una strategia che ci ha coinvolto come nessun altro, salvo gli inglesi. Ce n’è abbastanza per sforzarsi di non essere provinciali. O miopi.

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