Da La Repubblica del 07/05/2004

La visita del capo del governo di Pechino considerata un´occasione per riavviare un canale commerciale troppo trascurato

La Cina alla scoperta dell´Italia si apre il capitolo investimenti

Arriva a Roma il premier Wen Jiabao, oggi da Berlusconi

L´Inghilterra ha 60.000 studenti cinesi nelle sue università la Germania 50.000 e la Francia 40.000. L´Italia solo 600
È bastata la voce di un congelamento del credito bancario da Pechino per scatenare un´onda di paura da Tokyo a Wall Street

di Federico Rampini

ROMA - La visita del premier Wen Jiabao, giunto a Roma ieri, avviene in circostanze storiche eccezionali. Mai la Cina aveva goduto di una posizione centrale nella geo-economia globale, al punto da essere la locomotiva della crescita mondiale assieme agli Stati Uniti: con riflessi evidenti sul suo peso politico, affidato a una nuova generazione di leader che padroneggiano tecniche di comunicazione «occidentali». Bisogna sperare che Wen dia un elettrochoc al sistema Italia: l´ultimo a capire l´importanza della nuova Cina. Dal governo alla Confindustria, il nostro atteggiamento verso la nuova superpotenza economica ha oscillato fra i piagnistei sulla contraffazione e le velleitarie minacce di dazi protezionistici, mentre altri sistemi-paese conquistavano postazioni strategiche su quel mercato e ci relegavano in posizioni marginali.

In questi colloqui italo-cinesi emergono cifre desolanti. Il «made in Italy» esportato in Cina è lo 0,3% del nostro Pil, cioè irrilevante. Perfino peggiore è il dato sui nostri investimenti, un indicatore ancora più cruciale perché investire capitali in Cina (creando nuove imprese o acquistando produttori locali) è il modo più efficace per penetrare quel grande mercato in espansione, e per attingere a risorse umane di qualità. Ne sanno qualcosa le multinazionali americane della tecnologia avanzata, che da tempo in Cina delocalizzano non soltanto catene di montaggio operaie, ma anche centri di ricerca.

Invece l´Italia come investitore diretto in Cina quasi non esiste. È 23esima in classifica, lontana non solo da Stati Uniti e Giappone, ma anche da quasi tutti gli Stati europei, e distanziata perfino da paesi emergenti. Investiamo un sesto della Germania, che con la Siemens ha costruito il treno ad alta velocità di Shanghai, uno dei gioielli della metropoli del business. Investiamo un quarto della Francia, che con i suoi architetti e costruttori «firma» le grandi opere per la Pechino olimpica del 2008, come il nuovo teatro dell´Opera. Siamo dei nani rispetto a un piccolo paese europeo come l´Olanda, ci supera addirittura la Malaysia.

L´Italia ha la solita attenuante: è scomparso il capitalismo della grande industria (l´Olanda ha multinazionali che noi ci sogniamo, come Philips e Unilever), e per le piccole imprese è più difficile investire in un paese così lontano. Ma i ritardi italiani non vengono solo da un capitalismo provinciale e ripiegato in difesa. C´è un altro dato emblematico della nostra miopia, riguarda il numero di studenti cinesi nelle università straniere. Evitiamo i paragoni con l´America. Ammettiamo che anche l´Inghilterra - 60.000 studenti cinesi nelle sue università - è un caso a parte per la posizione unica della sua lingua. Resta che la Germania ha 50.000 cinesi nelle sue facoltà, la Francia 40.000, il piccolo Portogallo (per i legami storici ereditati dall´ex colonia di Macao) 12.000. L´Italia 600: s-e-i-c-e-n-t-o. Qui la responsabilità è di un´istituzione pubblica. Ed è una chiusura che pagheremo negli anni, perché quei giovani talenti cinesi che prendono un dottorato in Germania e in Francia tornando in patria diventeranno dei canali di collegamento permanenti con i paesi che li hanno ospitati, un moltiplicatore di relazioni culturali, economiche, politiche.

La centralità della Cina si è confermata in modo spettacolare sui mercati finanziari una settimana fa: è bastata la voce (inesatta) di un brusco congelamento del credito bancario da parte delle autorità di Pechino, per scatenare un´onda di paura sulle Borse di Tokyo, Wall Street e Londra. Uno starnuto cinese può compromettere la salute dell´economia mondiale. L´America e l´Europa hanno bisogno di questa locomotiva che cresce a una velocità del 9% annuo. Al tempo stesso ne temono il surriscaldamento - già fa salire alle stelle il prezzo del petrolio - e sperano che Wen sappia manovrare un atterraggio morbido, risanare un settore bancario squilibrato, sgonfiare la bolla speculativa del mercato immobiliare senza traumi.

Si parla ormai di «secolo sinoamericano» per indicare dove si è spostato il baricentro dell´economia globale. La dipendenza dell´America da questa Cina è il fatto nuovo degli ultimi anni: il risparmio delle famiglie cinesi, investito attraverso la loro banca centrale in buoni del Tesoro Usa, ha consentito ai consumatori americani di vivere al di sopra dei loro mezzi. La manodopera cinese è diventata il nuovo «esercito proletario di riserva» per Ibm e Intel, General Motors e General Electric. Questa compenetrazione spiega tante cose: anche quando Pechino gela le speranze di libere elezioni a Hong Kong, Washington emette proteste formali ma non cerca lo scontro. Non se lo può permettere. Bush ha accantonato il linguaggio battagliero dei suoi primi mesi di presidenza quando descriveva la Cina come il futuro rivale strategico, e anzi gioca a moderare l´alleata Taiwan. Con il disastro iracheno che peggiora, l´America deve blandire la Cina anche per tenere a bada la Corea del Nord. Raramente un leader cinese ha avuto tanta influenza e tanta libertà d´azione come il premier Wen che gli italiani scoprono in queste ore.

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