Da La Stampa del 08/05/2004

La fine di un Tabù

di Barbara Spinelli

DICEVA Hannah Arendt che «gli uomini normali non sanno che tutto è possibile». Non sanno che una grande democrazia come l'America è capace di produrre l'orrore, proprio come i dispotismi che pretende di combattere. Non sanno che il desiderio di arrecare sofferenza e di umiliare il corpo e l'anima dell'avversario in prigionia può divenire a tal punto banale - evento piatto, alla portata di tutti - che chiunque può ammetterlo e sentirsi incolpevole e perfino vantarsene. Si è parlato di nichilismo, a proposito dei terroristi che assaltarono le torri di New York e uccisero più di tremila persone. Ma nichilisti sono anche gli atti compiuti da soldati americani e mercenari privati che in questi giorni abbiamo visto sulle foto scattate nella prigione che fu di Saddam, a Abu Ghraib. Se Dio è morto tutto è permesso, dice il nichilista occidentale che giudica lecita l'uccisione di Dio, e di conseguenza l'umiliazione estrema dell'essere umano. È permesso usare quel luogo - Abu Ghraib, dove in trent'anni son stati torturati e uccisi 9000 prigionieri - allo stesso modo in cui il liberatore sovietico tenne aperto il Lager di Sachsenhausen, in Germania, e lo riempì anzi di nuovi prigionieri dissidenti. È permesso denudare e svillaneggiare un prigioniero, manipolare la sua fede, i suoi costumi etici, il suo rapporto col corpo, e costringerlo ad apparire in foto adatte a spettacoli di sadismo pornografico. Non solo: è possibile che il torturatore - il volto vittorioso di chi mostra un trofeo, il sorriso di chi è intimamente appagato, i gesti di esultanza - si faccia fotografare nel momento in cui si compiace di torturare. Per chi e perché ha scattato quelle foto, se non per rivedere ancora e ripetutamente il proprio volto di fabbricatore del male assoluto, del male che abbassa l'uomo non già a bestia ma a uomo spogliato della religione in cui crede, della cultura del corpo che attraverso la sua religione ha interiorizzato? Perché no, se attorno al torturatore o alla giovane torturatrice s'è insediata una cultura che pian piano è giunta a considerare triviale quella fabbrica di sofferenza e non degno di punizione quel disprezzo del diverso, soprattutto se musulmano? Si dirà che ciascun uomo è capace di questo, ogni volta che l'anormalità si converte in nostra comune normalità. Si dirà che in fondo occorre aver pietà dei torturatori: «Essi che non sanno quel che fanno». Ma non sapere quel che si fa non è una scusante, e nessuno può garantire che Gesù abbia detto queste parole con indulgenza, sulla croce. Chi non sa quel che fa è tanto più colpevole: perché crudele, e perché non sa cosa sia il male. È due volte crudele come il nichilista islamico, per il quale tutto è permesso visto che Dio non è morto. Quando cadono i tabù e s'infrange il senso della legge succede appunto questo: la gente - quella che conta o che non conta, i governanti o il comune cittadino - non sa più quello che fa. Hitler è in ciascuno di noi, è vero. Lo dicono non solo gli storici ma gli antropologi, che fanno esperimenti sull'attitudine umana a infliggere dolore e morte. Quarant'anni fa, si sperimentò la disponibilità di cittadini comuni a infliggere elettrochoc, in un test all'università di Yale. Il 65 per cento dei partecipanti obbedì al comando d'uccidere. Ma poi molti provarono vergogna, e qui comincia l'opera benefica del tabù. Il tabù esiste proprio per questo: perché nel giro d'un attimo siamo capaci di scivolare dalla civiltà alla barbarie, e perché questa realtà la fronteggiamo con sacralizzati divieti che è blasfemo intaccare. Questo tabù abbiamo visto cadere, scrutando le foto che ritraggono i soldati americani o inglesi che torturano prigionieri iracheni. Vengono in mente altre immagini, di tempi non lontani. Soldati tedeschi e SS che posano contenti davanti a mucchi di cadaveri denudati, nei campi di sterminio. Gli stessi soldati che contemplano un ebreo costretto a inoltrarsi nella Vistola, prima d'esser fucilato. Hanno quegli strani sorrisi anche loro. Naturalmente lo sappiamo: sono tanti gli episodi simili, il disastro si ripete sotto tanti cieli, le convenzioni di Ginevra sui prigionieri di guerra «sono violate da tutti», come ricorda Alan Dershowitz, l'avvocato americano difensore dei diritti civili che è stato uno dei primi a sostenere, nel 2003, la legittimità della tortura. Ma la democrazia aspira pur sempre a esser diversa dalla Cina, dal Sudan, dall'Iraq di Saddam, dalla Russia di Putin. Alle nostre guerre diamo perfino il nome di guerre umanitarie. Ma ecco: sono bastate alcune fotografie e tutta una retorica s'è sfasciata, assieme alle frasi che garantiscono mondi migliori. È quel che accade quando una democrazia come l'americana ha l'arroganza di credere che tutto le sia permesso: che solo per lei valga l'impunità; che solo per lei i mezzi siano giustificati visto che il suo fine è tanto più nobile di altri fini; che solo lei può rifiutare di sottoporsi ai tribunali internazionali che giudicano crimini di guerra e tortura. Non ha torto il senatore Ted Kennedy, quando dice che la Statua della Libertà è caduta per terra. Non si sa come finiranno le guerre in Iraq e Afghanistan, ma in questi giorni l'impensabile si fa pensabile: queste guerre sono iniziate nella menzogna o nel disordine, i soldati sono stati male istruiti e vengono ormai affiancati da un numero abnorme di guardie del corpo private che nulla sanno dei diritti dell'uomo (quasi 20.000 in Iraq, molto più dei soldati inglesi), e l'intera impresa può finire in catastrofe. I tabù non cadono da un giorno all'altro. La caduta è preparata da un generale permissivismo, da una cultura dell'impunità, da parole che smorzano il tremendo e sono chiamate eufemismi, perché rendono accettabile il male evitando di nominarlo. Infatti le autorità Usa non parlano di tortura: parlano di abusi, di condizioni che facilitano l'interrogatorio, di trattamenti fisici, di errori. Questa cultura che ingentilisce la colpa ha messo le radici molto tempo prima, non solo in America ma in Occidente, e l'11 settembre ha accelerato la degradazione. Ha detto Cofer Black, ex direttore del contro-terrorismo nella Cia, nel dicembre 2002 al Congresso: «Tutto quel che dovete sapere è questo: c'era un prima-11 settembre e c'è un dopo-11 settembre. Dopo l'11 settembre ci siamo tolti i guanti». S'è tolto i guanti l'avvocato Dershowitz, interrogato su questo giornale da Maurizio Molinari. S'è tolto i guanti Jack Wheeler, Presidente della Freedom Research Foundation, che dal 2001 consiglia una delle più intollerabili torture per i terroristi: la privazione dell'aria che respirano. È in questo clima che è stato possibile tener prigionieri più di 600 sospetti di terrorismo, nella base Usa di Guantánamo a Cuba, senza dar loro la possibilità di difendersi e violando la convenzione di Ginevra. Lo stesso Rumsfeld disse nel gennaio 2002 che per i terroristi la convenzione non valeva. È in questo clima che centinaia di prigionieri afghani trovarono la morte, nel massacro perpetrato a Mazar-i-Sharif nel novembre 2001. Molti uccisi avevano le mani ancora legate dietro la schiena. A parte il massacro di Mazar-i-Sharif, i morti in prigionia sarebbero più di 25, tra Afghanistan e Iraq, e le torture non sono iniziate con le foto. La Croce Rossa e Human Rights Watch scrissero lettere allarmate a Bush, a Rumsfeld, a Wolfowitz, a Condoleezza Rice: nel dicembre 2002, nel gennaio e marzo 2003, nel gennaio 2004. Se non fosse stato per le fotografie, probabilmente lo scandalo sarebbe stato messo a tacere. Ma c'erano le foto, e in democrazia non si usa ritoccare le immagini. Anche per questo i torturatori e chi ha accettato che esistessero torturatori non sanno quel che fanno. Nei totalitarismi si possono compiere crimini efferati perché non vi sono istituzioni indipendenti, e perché le immagini si ritoccano o si censurano. In democrazia le fotografie le vediamo nude e crude, perché è difficile imporre il silenzio-stampa o il silenzio-immagine. Almeno per il momento non si possono avere facilmente, in democrazia, le due cose insieme: la trasparenza dell'informazione e la definitiva banalizzazione della crudeltà. E tuttavia la banalizzazione è possibile anche da noi, e prima o poi tende a influenzare le legislazioni, a indurire i mezzi che promettono al cittadino impaurito la sicurezza, a rallentare infine la vigilanza della stampa. È una banalizzazione possibile non solo in America: anche in Italia c'è un partito governativo (la Lega) che ha imposto una legge secondo cui la violenza può chiamarsi tortura solo se è «reiterata». È una notizia che ha occupato poco i giornali: a causa della loro volatilità ma anche dell'indifferenza di tanti. È la nostra indifferenza a permettere che il male, dilagando, ci corrompa. Dipende dunque da noi restaurare i tabù che facciamo morire. Abbiamo visto che quella che Bush chiama «democrazia in azione» può incarnarsi in operazioni militari sgangherate, in torture, nel piacere erotico della guerra: Dottor Stranamore e Full Metal Jacket non sono un'invenzione di Kubrick. Ma anche la stampa libera è democrazia in azione, e anche il Senato che ha interrogato Rumsfeld con accanimento. Quando istituzioni simili si mettono al tavolo di lavoro, sembra che la democrazia sia di nuovo una cosa seria, non moribonda. Che possa correggere non solo scelte belliche pericolose, ma anche i propri crimini. La guerra in Iraq sta marcendo, e ora si tratta di aggiustare l'aggiustabile. Lo stesso dovranno fare i governi che combattono sotto comando Usa, e tra essi l'italiano: anche per essi è giunta l'ora di fermarsi, di meditare su quelle foto, di spiegarsi. Di capire se vogliono rendersi complici di un'operazione che rischia di screditare la democrazia che diciamo di voler difendere, e addirittura propagare nel mondo. Ma tutto questo non è sufficiente: la vera prova non consiste nel salvare la democrazia nei Paesi non democratici, ma di salvarla nei nostri Paesi e specialmente in America. Perché è qui da noi che si decide se la democrazia può tornare a esser compatibile, nell'immaginario delle genti, con la civiltà.

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