Da Corriere della Sera del 09/05/2004

Via dal Pentagono per il bene dell’America

Il caso Rumsfeld e l'amico italiano

di Stefano Folli

Non crediamo che il segretario alla Difesa americano, Donald Rumsfeld, sia stato convincente davanti al Congresso. Le scuse offerte all’opinione pubblica sono il minimo che ci si poteva attendere, rispetto alla gravità dello scandalo di Abu Ghraib. Ma sono parole. In democrazia, quando si ammette una responsabilità, esiste un solo modo per essere credibili: pagare di persona. Rumsfeld ha escluso di farlo e ha accusato, anzi, i suoi avversari di voler alimentare «un caso politico» intorno alle rivelazioni sulle torture. Con ciò l’amministrazione americana, se davvero intende coprire e sostenere il segretario alla Difesa, dimostra di non aver compreso la gravità senza precedenti della vicenda in atto.

Tutto lascia presumere che il peggio in questa storia debba ancora venire a galla. Non solo riguardo alle efferatezze compiute e a chi ne era informato, ma soprattutto per le conseguenze, queste sì politiche, destinate a colpire in forme devastanti l’immagine dell’America e il suo sistema di relazioni. Perciò lo scandalo non è solo un affare interno agli Stati Uniti e alle sue forze armate, come si vorrebbe a Washington, ma tocca molto da vicino gli alleati. In particolare quelli, come la Gran Bretagna e l’Italia, che hanno condiviso i rischi dell’avventura irachena e si sono sforzati di vedere una strategia razionale nei comportamenti confusi e contraddittori della Casa Bianca.

Quel che Rumsfeld dice o non dice riguarda dunque anche i governi di Londra e di Roma. Nel momento in cui si accetta che la lotta al terrorismo costituisca la priorità assoluta, nel momento in cui si riconosce, giustamente, che gli Stati Uniti non devono essere lasciati soli, si acquisisce il diritto di essere ascoltati su un piede di dignitosa parità. Come alleati che hanno pagato un prezzo di sangue e rischiano ogni giorno. Nel segno di una spedizione che doveva essere di pace e si è trasformata in tutt’altro.

L’Italia può accettarlo. Può accettare di condividere fino in fondo la responsabilità di una missione volta a dare stabilità all’Iraq. Ma non può accettare che il ruolo dell’America, forza occupante, assomigli a quello della Francia in Algeria. Quindi, non può dichiararsi estranea al destino di Rumsfeld, l’uomo simbolo di una politica fallimentare che getta nello sconforto non i nemici degli Stati Uniti, bensì i suoi amici. Il ministro degli Esteri Frattini ha detto che l’Italia vuole coinvolgere i Paesi arabi moderati in un grande disegno strategico. Ottima intenzione: ma come pensa di riuscirci se Rumsfeld resta al suo posto e se ogni giorno i siti Internet offrono ai giornali di tutto il mondo una serie inesauribile di immagini stomachevoli, umilianti per qualsiasi arabo e per ogni musulmano? Il discredito dell’amministrazione Bush finirebbe per abbattersi sugli alleati, soprattutto quelli che si vantano di essere in prima fila.

Come ha scritto un commentatore americano, Bin Laden ha ottenuto con lo scandalo delle torture una vittoria più grande di quella che spuntò l’11 settembre. C’è una sola strada: che Rumsfeld lasci il suo posto. L’Italia, non meno della Gran Bretagna di Blair, deve utilizzare tutti i suoi canali diplomatici e premere sulla Casa Bianca. Nessuno potrebbe dubitare dell’amicizia del governo Berlusconi verso l’attuale amministrazione. Proprio per questo, la nostra voce avrebbe qualche probabilità di essere ascoltata. Manca meno di un mese al 60° anniversario della liberazione di Roma. Non lasciar sola l’America vuol dire anche aiutarla a ritrovare se stessa, insieme a un po’ dello spirito di quei giorni lontani. Il primo passo è che Rumsfeld lasci il Pentagono. Per il bene dell’America e dei suoi amici nel mondo.

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