Da La Stampa del 03/05/2004

Troppo rischioso il divario con l’economia occidentale

La Cina si spaventa e imbriglia la crescita

di Alfredo Recanatesi

Il governo cinese ha annunciato misure per rallentare la crescita dell'economia sostenendo che la sua irruenza sta rischiando di gonfiare una pericolosa bolla speculativa. Che un sistema economico come quello cinese possa rischiare una bolla speculativa, però, sembra piuttosto un’analogia con la fisiologia dei sistemi economici occidentali tanto azzardata da sembrare una scusa che nasconde altre motivazioni. E infatti, se un sistema economico fondato sulla libertà di iniziativa, sulla concorrenza, su un mercato finanziario ampio e rappresentativo si trovasse a crescere ai ritmi della Cina e con la continuità della Cina, esploderebbe come può esplodere il motore di una macchina di F1. Ma il sistema economico cinese è diverso, e non basta a renderlo uguale, e neppure lontanamente simile, la sua apertura alle imprese occidentali e l'ammissione di qualche forma di proprietà privata.

Nel pragmatismo proprio di quel regime, l'accoglienza a braccia aperte a ogni collaborazione con le imprese americane, giapponesi (degli invisi giapponesi), o europee è dovuta alla consapevolezza che solo così possono essere acquisite le tecnologie più avanzate necessarie per il progresso di un sistema produttivo che deve provvedere a elevare l'attuale infimo livello medio di benessere del miliardo e 400 milioni di suoi abitanti. Ma questo non significa che quel Paese, anzi quel regime, si sia occidentalizzato, ma solo che usa spregiudicatamente metodi occidentali per perseguire il suo fine collettivista, asservendo al suo dirigismo anche metodi capitalisti, compresa una ristretta classe di ricchi che produca una ricchezza da spandere poi sull'intera popolazione. Fu Deng, dopo la morte di Mao, più di vent'anni fa, a delineare questa strategia che i suoi successori poi hanno puntualmente confermato e diligentemente seguito.

Bolle speculative in quel sistema sono improbabili perché tutto è diretto, o può essere diretto, dalla nomenclatura di Pechino. La quale nomenclatura ha seguito soddisfatta e senza problemi la crescita finora avvenuta che da anni registra tassi strabilianti senza alcuna ombra di bolle o altri squilibri. Negli ultimi dieci anni il tasso di crescita non è mai sceso sotto il 7% e quello dell'inflazione non è mai salito oltre l'1%: in quale altro sistema si sarebbero potuti verificare dati del genere?

I problemi sono altri e principalmente di due ordini: uno interno e uno geopolitico. Di quello interno basterà dire che si sta aprendo un divario che minaccia di essere politicamente insostenibile tra il rapido e consistente progresso delle regioni orientali e sud-orientali lungo le direttrici che da Pechino toccano Shangai, la conurbazione di Canton e Hong Kong, per raggiungere la regione di Macao, e le zone più interne e remote del nord e dell'ovest, le zone agricole nelle quali vive la maggior parte della popolazione, ma per produrre neppure un quinto del Pil complessivo.

I motivi di ordine geopolitico sono quelli connessi alla pressione che la crescita cinese sta esercitando sulle risorse dell'intero pianeta. Il tema è quello caro agli ambientalisti, i quali da tempo vanno dimostrando che né le risorse, né l'ambiente sono in grado di sostenere una elevazione del benessere di quei tre o quattro miliardi di persone che vivono in Asia - la Cina e l'India principalmente - a livelli solo lontanamente paragonabili a quelli del miliardo o giù di lì delle popolazioni individuate come occidentali. Da mesi fanno notizia i forti rincari del prezzo dell'acciaio e di quello del petrolio, ma tutti i prezzi delle materie prime sono sotto pressione. Di molte di esse comincia ad esserci carenza, come anche le imprese italiane stanno toccando con mano. Le importazioni cinesi di petrolio, tanto per dare un dato, stanno crescendo a un ritmo superiore al 30% l'anno.

Come conseguenza del processo di globalizzazione del benessere in un pianeta sovrappopolato, la pressione sulle risorse è destinata prima o poi a esplodere, e nessuno è in grado di prevedere che cosa potrà succedere. È probabile, però, che i vertici di Pechino si rendano conto che non conviene loro rischiare che esploda ora. Hanno un primario bisogno di mantenere buone relazioni con i Paesi più evoluti dai quali devono ancora mutuare tecnologie, tecniche finanziarie, sistemi organizzativi. Non possono rischiare di indurre reazioni politico-protezionistiche prima che il progresso della Cina si consolidi e si affranchi dalla dipendenza straniera. Ecco allora un più probabile motivo per tirare la briglia alla crescita e contenere (si fa per dire!) il tasso di sviluppo attorno al 6,5%. La visita del premier Wen Jiabao in Europa che s’inizia oggi sarà così più serena e sgombra da rilevanti contenziosi, ma il problema della sostenibilità della crescita cinese è ormai aperto, e non è più soltanto una proiezione dell'analisi economica, ma un concreto dato di fatto.

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