Da La Stampa del 26/04/2004
Osservatorio
Corea del Nord negoziare è d’obbligo
L’America, impegnata in Iraq, non può aprire un fronte militare con il Paese comunista che possiede l’atomica: serve la diplomazia
La Cina ha finora protetto l’alleato, ma qualcosa sta cambiando
di Aldo Rizzo
La Corea del Nord è tornata sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo tre giorni fa, per l'apocalittico incidente nella stazione ferroviaria di Ryongchon, il cui bilancio non è terrificante come si era detto per quanto riguarda il numero delle vittime (che peraltro si fa sempre più alto), ma resta tale per il complesso delle distruzioni materiali. E con la notizia del disastro ferroviario sono tornate le analisi e le riflessioni su quello che è il Paese più misterioso del pianeta. Misterioso e pericoloso, potenzialmente anche più dell'Iraq.
Già l'incidente in sé, per le sue dimensioni, è una spia inquietante della realtà nordcoreana, dello stato delle sue infrastrutture e così via. E anche dello stato dell'informazione, visto che solo sabato, due giorni dopo la tragedia, il regime comunista ha detto all'interno qualcosa su quanto era accaduto, pur se era già stato costretto a chiedere aiuto e assistenza all'esterno. E si sa delle disperanti condizioni di vita della popolazione, della carenza e spesso assenza di beni primari, fra i quali il cibo. Ma non è solo e non tanto per questo che la Corea del Nord è un'anomalia assoluta, in un'Asia che ha intrapreso da tempo la via dello sviluppo, anche accelerato, e di una relativa democratizzazione, quanto per il fatto che questo Paese dispotico e disastrato è riuscito a diventare una potenza nucleare, impiegando tutti i pochi mezzi finanziari di cui dispone e la tecnologia che non le manca o che riesce a importare. Quanto ai mezzi finanziari, pare che li potenzi con una sistematica, efficace contraffazione di quantità anche grandi di dollari americani...
Che il regime di Pyongyang sia già in possesso di armi nucleari, sembra assodato. Al giornalista del New York Times David Sanger, il padre della bomba atomica pachistana, Abdul Qadeer Khan (grande venditore di tecniche e materiali segreti, per questo incriminato e poi «perdonato») ha rivelato che già nel 1999 i nordcoreani gli fecero vedere tre bombe pronte per l'uso. Probabilmente lo sapevano e lo sanno anche a Washington, come forse sanno, o sospettano, che da qui alla fine dell'anno, mentre continua il balletto d'inconcludenti negoziati, la produzione nordcoreana di plutonio e uranio arricchito consentirà di portare da tre a nove-dieci il numero degli ordigni. E il «caro leader» Kim Jong Il dispone anche di un bel po' di missili Nodong, capaci di raggiungere il Giappone e l'Alaska.
Certo, dice sempre sul New York Times il commentatore Nicholas Kristof, esperto in materia, le rivelazioni dello scienziato pachistano non sono state confermate (ma potevano?) e in ogni caso «l'amministrazione Bush ha invaso l'Iraq sulla base di prove molto minori». Bush ha piuttosto minimizzato, o addirittura ha tentato di tenere segrete, queste informazioni, perché ormai dominato dalla guerra irachena e anche per non aggiungere temi rischiosi ai molti che già condizionano la sua campagna elettorale. In questo modo, però, conclude Kristof, Bush ha scelto d'ignorare quello che è il «vero pericolo».
Se ne riparlerà dopo le elezioni di novembre? E non sarà magari troppo tardi? E poi non è che la Corea del Nord, con quanto si è detto, possa essere invasa come l'Iraq, lei le armi di distruzione di massa sembra averle davvero e di già. In realtà, il governo di Washington ha un suo disegno. Che è quello di evitare, per quanto è possibile, uno scontro militare, affidandosi a un negoziato multilaterale (le due Coree, la Cina, la Russia e il Giappone, oltre agli Usa). Il negoziato potrà restare vittima dei tatticismi di Pyongyang, ma ciò su cui più contano gli Stati Uniti è il ruolo della Cina. Che è stata finora la protettrice e la rifornitrice (dal cibo al petrolio) della Corea comunista, ma che non può accettare a cuor leggero che la sua protetta diventi definitivamente una potenza nucleare, con ciò stesso scatenando una gara al riarmo atomico nei suoi paraggi, dal Giappone a Taiwan.
Senza pensare all'interesse strategico di Pechino a non compromettere (anzitempo) il rapporto con quella che è per ora la massima potenza planetaria, nonostante l'Iraq. Un disegno a rischio, quello americano. Speriamo che funzioni, a differenza di altri, in un Oriente più vicino a noi.
Già l'incidente in sé, per le sue dimensioni, è una spia inquietante della realtà nordcoreana, dello stato delle sue infrastrutture e così via. E anche dello stato dell'informazione, visto che solo sabato, due giorni dopo la tragedia, il regime comunista ha detto all'interno qualcosa su quanto era accaduto, pur se era già stato costretto a chiedere aiuto e assistenza all'esterno. E si sa delle disperanti condizioni di vita della popolazione, della carenza e spesso assenza di beni primari, fra i quali il cibo. Ma non è solo e non tanto per questo che la Corea del Nord è un'anomalia assoluta, in un'Asia che ha intrapreso da tempo la via dello sviluppo, anche accelerato, e di una relativa democratizzazione, quanto per il fatto che questo Paese dispotico e disastrato è riuscito a diventare una potenza nucleare, impiegando tutti i pochi mezzi finanziari di cui dispone e la tecnologia che non le manca o che riesce a importare. Quanto ai mezzi finanziari, pare che li potenzi con una sistematica, efficace contraffazione di quantità anche grandi di dollari americani...
Che il regime di Pyongyang sia già in possesso di armi nucleari, sembra assodato. Al giornalista del New York Times David Sanger, il padre della bomba atomica pachistana, Abdul Qadeer Khan (grande venditore di tecniche e materiali segreti, per questo incriminato e poi «perdonato») ha rivelato che già nel 1999 i nordcoreani gli fecero vedere tre bombe pronte per l'uso. Probabilmente lo sapevano e lo sanno anche a Washington, come forse sanno, o sospettano, che da qui alla fine dell'anno, mentre continua il balletto d'inconcludenti negoziati, la produzione nordcoreana di plutonio e uranio arricchito consentirà di portare da tre a nove-dieci il numero degli ordigni. E il «caro leader» Kim Jong Il dispone anche di un bel po' di missili Nodong, capaci di raggiungere il Giappone e l'Alaska.
Certo, dice sempre sul New York Times il commentatore Nicholas Kristof, esperto in materia, le rivelazioni dello scienziato pachistano non sono state confermate (ma potevano?) e in ogni caso «l'amministrazione Bush ha invaso l'Iraq sulla base di prove molto minori». Bush ha piuttosto minimizzato, o addirittura ha tentato di tenere segrete, queste informazioni, perché ormai dominato dalla guerra irachena e anche per non aggiungere temi rischiosi ai molti che già condizionano la sua campagna elettorale. In questo modo, però, conclude Kristof, Bush ha scelto d'ignorare quello che è il «vero pericolo».
Se ne riparlerà dopo le elezioni di novembre? E non sarà magari troppo tardi? E poi non è che la Corea del Nord, con quanto si è detto, possa essere invasa come l'Iraq, lei le armi di distruzione di massa sembra averle davvero e di già. In realtà, il governo di Washington ha un suo disegno. Che è quello di evitare, per quanto è possibile, uno scontro militare, affidandosi a un negoziato multilaterale (le due Coree, la Cina, la Russia e il Giappone, oltre agli Usa). Il negoziato potrà restare vittima dei tatticismi di Pyongyang, ma ciò su cui più contano gli Stati Uniti è il ruolo della Cina. Che è stata finora la protettrice e la rifornitrice (dal cibo al petrolio) della Corea comunista, ma che non può accettare a cuor leggero che la sua protetta diventi definitivamente una potenza nucleare, con ciò stesso scatenando una gara al riarmo atomico nei suoi paraggi, dal Giappone a Taiwan.
Senza pensare all'interesse strategico di Pechino a non compromettere (anzitempo) il rapporto con quella che è per ora la massima potenza planetaria, nonostante l'Iraq. Un disegno a rischio, quello americano. Speriamo che funzioni, a differenza di altri, in un Oriente più vicino a noi.
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