Da La Stampa del 25/04/2004

Termidoro a Baghdad

di Barbara Spinelli

IN principio erano le armi di distruzione di massa, che bisognava eliminare se non si voleva, come disse Bush nell’ottobre 2002 a Cincinnati, attrarre su di noi il grande fungo atomico. Poi, siccome le armi non si trovarono, i neoconservatori e un certo numero di liberali statunitensi comunicarono qual era il vero scopo della guerra: rivoluzionare il grande Medio Oriente, non contentarsi più dello status quo, portare in quei Paesi la democrazia, abbattere i totalitarismi vecchi e nuovi, fossero essi nazional-comunisti o integralisti islamici. La libertà avrebbe pesato più della stabilità: questa la rivoluzione diplomatico-strategica che Bush inaugurò e propose agli alleati volonterosi. La rivista neoconservatrice Weekly Standard criticò chi usava corteggiare i tiranni, e se la prese con le pigrizie storiche degli europei: ancora una volta questi si lasciavano tentare dall’appeasement, dalla pacificazione con i despoti. Ancora una volta - questo l’argomento - l’Europa ripeteva il disonore del trattato di Monaco, patteggiando col male così come nel ’38 aveva immaginato di poter patteggiare con Hitler pur di evitare la guerra.

Saddam venne messo sullo stesso piano di Hitler, e il partito Baath fu comparato al partito nazista. Così si procedette alla de-baathificazione, appena presa Baghdad. Nel maggio 2003 il governatore Usa Paul Bremer assicurò che non di invasione s’era trattato ma di liberazione, visto che non solo Saddam era stato abbattuto ma il Baath veniva messo fuori legge. Tutti i principali dirigenti furono epurati, fu sciolto l’esercito di Saddam, vennero licenziati maestri, ingegneri, alti funzionari. Almeno 120.000 baathisti persero il lavoro.

Adesso anche questo proposito rivoluzionario s’infrange, come castello di carte. A partire da giovedì scorso l’ordine del giorno cambia in Iraq, la rivoluzione democratica finisce, e comincia il Termidoro. Lo ha annunciato venerdì alle televisioni lo stesso Bremer, che un anno fa s’era gloriato dell’epurazione: «Abbiamo bisogno di nuovo del partito Baath», ha detto in sostanza. Aveva lo sguardo sperso, privo d’espressione. Le facce toste son spesso siffatte. I settori in cui s’applicherà la riabilitazione sono: l’esercito, la polizia, le università, i municipi, forse lo stesso governo che sostituirà l’esecutivo nominato da Washington. L’élite irachena potrebbe tornare a comporsi d’un partito fino a ieri ritenuto identico a quello nazista, e alleato obiettivo del terrore. È come se gli anglo-americani, vinta la seconda guerra mondiale con l’aiuto dei partigiani, avessero rimesso al governo della Germania occupata non Goebbels o Göring, ma pur sempre alti dignitari del partito hitleriano.

Il fatto è che in Iraq non esistono le vaste schiere di partigiani che affiancarono i liberatori anglo-americani in Italia o Francia. Nelle ultime settimane questa realtà è apparsa evidente. Non sono terroristi a resistere all’assedio alleato di Falluja o Kerbala, ma è un’insurrezione. Naturalmente non tutto l’Iraq si solleva. Sono minoranze, sia sciite che sunnite: ma le insurrezioni sono quasi sempre fatte da minoranze, e nonostante questo trascinano le popolazioni. Nei giorni scorsi i generali Usa hanno infine ammesso di poter contare solo sul 50% della polizia irachena. Il 40% ha disertato, il 10 è passato agli insorti. Insorti che mettono sempre più paura, soprattutto quando appartengono all’estremismo sciita di Al Sadr e quando minacciano di lanciare contro gli occupanti l’arma del jihad suicida. Per tutte queste ragioni, e perché l’islamismo sciita potrebbe vincere in elezioni democratiche, l’America manda oggi il suo Sos al Baath.

La disillusione è stata grande, e brusca. In realtà è un’ammissione di sconfitta, e cinismo o realismo riprendono il sopravvento. È come se l’intera guerra fosse stata inutile, visto che al potere tornano quelli contro cui tanti americani e coalizzati hanno combattuto e sono morti. Il bisogno di stabilità prevale di nuovo su quello di libertà - anche se molti iracheni stanno meglio - e il Baath torna a esser baluardo contro l’islamismo radicale.

Ma le autorità statunitensi non s’accontentano di un Baath vecchio stile: era totalitario e mafiosamente avido di guadagni, era di stile comunista e con radici tribali, e adesso il suo compito è di rivestirsi d’un vestito moderno, formalmente democratico, e filoamericano. Non è escluso che molti generali e ufficiali Baath accettino il baratto, pur di esser riabilitati. Che si impegnino non solo a dare quella stabilità che Bush sembra d’un tratto agognare, ma che acconsentano anche a una sovranità irachena limitata. Nello stesso momento in cui riabilitava una parte del vecchio regime, infatti, Washington ha dichiarato che la scadenza del 30 giugno va radicalmente rivista. Il 30 giugno il potere passerà a un governo iracheno, ma non a un governo sovrano come proposto da Onu ed europei: nelle scelte militari e legislative, l’ultima parola dovrà spettare agli Usa. È il modo in cui Bush pensa di poter vincere la guerra, pur ammettendo tra le righe d’averla persa ideologicamente.

Forse è il momento di guardare in faccia questa guerra enigmatica che continuamente cambia rotta. Ed è venuto il momento di parlarne, al di là delle retoriche. Di parlarne tra europei e americani, tra europei, e anche tra italiani. Non solo per costruire la pace, ma per non screditare completamente il ricorso delle democrazie alle guerre, quando le guerre son davvero necessarie.

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