Da Corriere della Sera del 19/04/2004

Il nodo delle frontiere

di Antonio Ferrari

E’ logico ritenere che gli Usa non abbiano dato un consenso preventivo a Ariel Sharon per l’assassinio del neoleader di Hamas, Abdel Aziz Rantisi, ma il silenzio, nel Medio Oriente devastato dalle guerre e ammorbato dai sospetti, è sempre assenso. Sul silenzio di Washington punta il premier di Israele, per convincere il suo riluttante partito che il piano di ritiro unilaterale da Gaza non interrompe la strategia delle uccisioni mirate e la lotta a tutto campo contro il terrorismo. Ma ora c’è il rischio che venga alzata la mira, e che uno dei prossimi obiettivi possa essere Yasser Arafat. Prospettiva infausta, che soddisferebbe soltanto coloro che intendono sostituire la ricerca della pace con una cronica e sanguinosa instabilità.

Il problema è che sia Bush sia Sharon devono affrontare due esami importanti, e ciascuno ha bisogno dell'altro. Il presidente americano, che vuole la rielezione, non può alienarsi le simpatie della comunità ebraica, e il primo ministro israeliano conta di spendere il sostegno della Casa Bianca per vincere il referendum del Likud, previsto per il 2 maggio. E' chiaro che Sharon, per combattere l'estremismo palestinese, ritiene che il miglior deterrente sia la paura. In meno di un mese ha ordinato di uccidere sia lo sceicco Ahmed Yassin sia il suo successore, appunto Rantisi, e i suoi collaboratori non fanno mistero che anche il capo politico di Hamas, Khaled Mashal, è nel mirino. Però Mashal si trova a Damasco, e la sua uccisione accrescerebbe la tensione, coinvolgendo la Siria proprio nel momento in cui gli Usa e l'Italia chiedono il suo aiuto: i primi (con il segretario di Stato Colin Powell) per stabilizzare l'Iraq; la seconda, per ottenere i buoni uffici di Bashar el Assad per liberare gli ostaggi.

Le mosse di Sharon, in verità, non sono sorprendenti. Il generale-premier è andato a Washington per spiegare il suo piano di ritiro unilaterale da Gaza, con lo smantellamento degli insediamenti ebraici che vi si trovano. Ha ottenuto il sostegno di Bush, e ha incassato l'incoraggiamento dell'Ue, dell'Onu e della Russia, anche perché la tanto propagandata road map, proposta come l'unica via per raffreddare il conflitto, non ha mai visto la luce.

Quindi, l'iniziativa di Sharon ha colmato un vuoto e alla fine anche i palestinesi l'avevano accettata. Considerando che la decisione del premier infrangeva un tabù, e poteva essere ritenuta un avvio promettente.

Eppure, dopo la conferenza stampa congiunta alla Casa Bianca, le critiche hanno rapidamente soffocato gli applausi. Il punto, infatti, non è ciò che il primo ministro israeliano ha detto a Bush, ma quel che Sharon ha ascoltato, con evidente soddisfazione, dall'uomo più potente del mondo, che si è spinto laddove nessuno dei suoi predecessori (compreso suo padre) si era avventurato. Più che il freno al diritto al ritorno dei profughi palestinesi, argomento controverso di tutte le trattative dell'ultimo decennio, a far infuriare i vertici dell'Anp, gli arabi, e a provocare l'irritazione dell'Onu, dell'Ue e della Russia sono state le dichiarazioni di Bush sulla necessità di considerare «irrealistiche» le frontiere del '49 e del '67. In altre parole, la Casa Bianca riconosce che alcuni grandi insediamenti della Cisgiordania sono ormai una realtà consolidata. Un passo che ha offerto al primo ministro israeliano qualcosa che forse va oltre le sue aspettative, e che ha inasprito le incomprensioni fra gli Stati Uniti e l'Unione Europea.

Mettere in discussione la legittimità internazionale (le risoluzioni dell'Onu 242 e 338 che impongono a Israele di ritirarsi dai territori occupati) è stato letto dal governo di Sharon come un segnale incoraggiante. Anche a intensificare la campagna delle uccisioni mirate. Con crescita esponenziale della violenza, e con il rischio di saldare l'estremismo palestinese al terrorismo internazionale.

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