Da La Stampa del 16/04/2004

Vigilantes in Iraq come soldati di ventura

Guerre private

di Giovanni De Luna

L’agghiacciante morte di Fabrizio Quattrocchi ha scaraventato nelle nostre case un altro tragico aspetto della guerra in Iraq: accanto agli eserciti regolari schierati dalle potenze occidentali agiscono «milizie private» composte da guerrieri professionisti al servizio di aziende che operano sul mercato iracheno, percependo lauti compensi per proteggerne uomini, impianti e strutture. Il fenomeno era già noto, ma solo il drammatico rapimento degli ostaggi italiani ne ha svelato le dimensioni vistose. Non ci sono precedenti in questo senso nelle esperienze belliche del Novecento. I mercenari impegnati nelle guerre coloniali e postcoloniali erano schierati con una delle parti che si contendevano il potere politico; nei vigilantes che operano in Iraq la dimensione statuale della politica è completamente assente.

«È morto da eroe!» ha esclamato il ministro Frattini commentando la barbara esecuzione di Quattrocchi; ma che tipo di eroe? Di quelli che muoiono per la patria? Gli saranno riservati gli onori militari che hanno accolto i caduti di Nassiriya? È un lutto pubblico o privato? Sono interrogativi che si affollano senza trovare risposte, perché vi rimangono impigliati troppi nodi irrisolti della nostra epoca. Il fatto è che la rottura del nesso tra la Guerra e lo Stato sembra travolgere il paradigma della modernità politica che per almeno quattro secoli ha plasmato la vita degli uomini e degli stati del nostro mondo, dell'Occidente euroamericano. Lo stato moderno è infatti nato legittimandosi come unico detentore legale della forza, il solo abilitato a usare la violenza nel nome della giustizia e della legge. Da Hobbes in poi, il monopolio statuale della violenza è stata la garanzia dell'ordine, funzionale alla conservazione della pace sociale. Lo Stato era quindi il presupposto della guerra così come l'abbiamo sempre conosciuta nel Novecento.

L'irruzione del mercato e degli interessi privati cambia in profondità la natura stessa della guerra. Sembra di tornare inidetro nel tempo a quando la guerra era dominata dall'impresa privata, quando le compagnie di ventura prestavano la loro opera specializzata. Sono considerazioni svolte dallo storico Walter Barberis. Stiamo parlando di un Rinascimento italiano in cui il massimo delle virtù private si coniugava con il massimo di vizi pubblici, quando le nostre città fiorivano di commerci e di mercati e languivano di spirito civico e appartenenze comunitarie. Il ritrarsi dello Stato e della Politica ha svelato la capacità del Mercato di sostituirsi a tutti i meccanismi istituzionali, compreso quello che regola l'uso della violenza. Ma il risultato lo conosciamo già: i Colleoni, gli Sforza, i Visconti, i Gonzaga, i Colonna, fecero prosperare le loro fortune private affogando nel marasma la speranza per il nostro paese di tenere il passo degli altri che allora si fecero Stato, coltivarono il proprio «particulare» negando alla radice ogni nozione di «bene comune». Oggi a Baghdad crescono vertiginosamente i traffici e i profitti; il mercato è avviato a uno sviluppo tumultuoso e incontrollabile, nell'assenza di qualsiasi parvenza di ordine statuale, alla cui ricostruzione nessuno sembra veramente interessato: la guerra della postmodernità rivela in questo aspetto la sua indifferenza verso un nuovo ordine istituzionale, un suo inquietante fondo di intrinseca anarchia.

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