Da La Repubblica del 14/04/2004

L´america si è ammalata

Intervista a paul krugman di cui esce un nuovo saggio

George Bush ha conquistato e mantenuto il potere in modo assai discutibile
Il divario tra ricchi e poveri somiglia a quello degli anni Venti e aiuta la destra

di Federico Rampini

SAN FRANCISCO - «Questo presidente - ha dichiarato il senatore Ted Kennedy in una conferenza alla Brookings Institution il 5 aprile - ha creato il più ampio vuoto di credibilità dai tempi di Richard Nixon. Ha spezzato il fondamentale legame di fiducia con gli americani. Il risultato è una profonda e pericolosa crisi nella nostra politica estera. Abbiamo perso il rispetto di altre nazioni nel mondo. L´Iraq è il Vietnam di George Bush». Il ruolo della menzogna di Stato torna ad essere una ferita aperta nella politica americana del dopo-11 settembre. La denuncia di Kennedy - che ha scatenato reazioni durissime in campo repubblicano - si addice al ruolo del leader storico della sinistra democratica. Sorprende di più scoprire che questo tema è il cavallo di battaglia di uno dei più autorevoli economisti del mondo, Paul Krugman. Enfant prodige, che a cinquant´anni appena compiuti ha già insegnato a Yale, Stanford e Mit prima di approdare a Princeton, Krugman è stato anche consulente della Casa Bianca (nientemeno che ai tempi di Ronald Reagan). E´ stato tra i primi e più acuti studiosi della globalizzazione, ha scritto pagine importanti sulla crisi asiatica del 1997, il suo nome è stato più volte evocato per il premio Nobel dell´Economia. Non si è mai schierato con gli anti-global e non ha quindi la fama di un radicale. Da alcuni anni Krugman ha sposato con entusiasmo un secondo mestiere, quello di columnist del New York Times: per l´Italia i suoi editoriali appaiono su Repubblica.

Sui giornali la sua verve polemica è esplosa in un crescendo irresistibile. Prima per denunciare le ricette di "economia-voodoo" di George Bush, che ha dissestato i conti pubblici americani con un deficit senza precedenti. Poi per smascherare gli inganni dell´Amministrazione sulla privatizzazione delle pensioni, sulle cause dei blackout energetici, sul degrado ambientale. Ma via via che osservava la "nuova destra sovversiva" (definizione sua) in azione a Washington, Krugman tralasciava volentieri il computer dell´economista per usare sempre di più la sciabola del polemista politico. Il suo ultimo libro, La deriva americana (Laterza, pagg. 268, euro 18) esce in Italia proprio mentre l´insurrezione irachena precipita l´Amministrazione Bush in un drammatico vuoto di credibilità. Ne abbiamo parlato con Krugman: come Kennedy, anche lui non esita a usare un paragone che nessun americano fa a cuor leggero, evocando lo spettro del Vietnam.

Che cosa ha spinto un autorevole economista come lei a scrivere sempre meno di economia, e sempre di più di politica?
«La risposta più semplice è: perché sono lì, perché ho quello spazio settimanale sul New York Times. Quella column nella pagina dei commenti è una tribuna influente. In queste circostanze, in questo momento storico, i problemi politici negli Stati Uniti sono i più importanti. Scrivere d´altro mi sembrerebbe una fuga dalle mie responsabilità».

Un tema ricorrente che fa scattare la sua ira e la sua denuncia, è l´uso sistematico della menzogna da parte di chi oggi è al potere.
«E´ esattamente la ragione per cui ho cominciato ad affrontare sempre più spesso la politica. All´inizio, quando il New York Times mi propose di scrivere, mi occupavo prevalentemente di questioni economiche. Poi arrivò il 2000. Già durante la campagna presidenziale, le promesse elettorali di Bush, i suoi piani di riduzione delle imposte, contenevano molte bugie. Poiché sapevo qualcosa di aritmetica e di economia, individuai prima di altri quello che poi è diventato un metodo permanente di questa Amministrazione».

In questo libro lei descrive una democrazia americana malata, in pericolo.
«Lo spettacolo di questa America è inquietante. L´Amministrazione Bush è nata attraverso una conquista del potere assai discutibile. Dopo quella controversa elezione è accaduto qualcosa di stupefacente: anziché governare da moderato per tener conto della profonda divisione dell´elettorato, Bush ha puntato in modo spietato a consolidare il suo potere. E´ un´Amministrazione senza scrupoli, uno spettacolo così non lo si vedeva negli Stati Uniti dai tempi di Nixon».

Un osservatore europeo ha l´impressione che non solo i repubblicani si siano radicalizzati sotto l´influenza del movimento neoconservatore, ma che anche i democratici siano slittati più a destra. Le posizioni della sinistra europea, sui temi sociali o sulla politica estera, non hanno più rappresentanti nello spettro politico del bipartitismo americano.
«Gli Stati Uniti non hanno quasi mai avuto una sinistra simile a quella europea. Oggi perfino i più "liberal" tra i democratici Usa nella loro politica economica sono più a destra dei conservatori britannici. Non credo che in questo ci sia stato un forte cambiamento di recente, ho l´impressione che la collocazione del partito democratico non sia molto diversa da quella di vent´anni fa. La vera novità è l´ascesa di una destra molto dura sulla scena politica. Questo è il fatto dominante degli ultimi anni. Quest´ala destra radicale è vicina a consolidare sotto il suo controllo tutte le leve del potere. Il grande interrogativo che dobbiamo porci è questo: se ce la faranno, o se ci sarà una reazione di rigetto dell´opinione pubblica».

Nel suo saggio lei mette in relazione il degrado della democrazia americana e il forte aumento delle diseguaglianze sociali. Qual è il nesso?
«Gli Stati Uniti hanno una distribuzione dei redditi più ineguale dei paesi europei, e lo è diventata maggiormente negli ultimi decenni. Oggi noi siamo ritornati a livelli di diseguaglianze sociali paragonabili a quelli degli anni Venti. Si potrebbe pensare che questo spinga il paese verso sinistra, per reazione e in cerca di una correzione. Invece è successo l´esatto contrario, questa evoluzione ha spostato gli equilibri in favore della destra. Il ruolo del denaro nel finanziare la politica è diventato ancora più importante che nel resto del mondo. Una destra economica potente, sostenuta dalla crescente concentrazione di ricchezza, ha poi trovato il supporto culturale della destra religiosa. E´ un fenomeno unicamente americano. Oggi è quell´alleanza che ci governa».

La catena di scandali che hanno colpito il capitalismo americano, dalla Enron in poi, rivelano una decadenza etica della classe dirigente?
«Non sono sicuro che nel passato i nostri capitalisti abbiano mai avuto valori morali molto nobili. Di certo però c´erano sistemi di controllo che funzionavano. Chi avesse avuto voglia di arricchirsi sfacciatamente ai danni degli azionisti, era trattenuto dal timore della punizione. Negli ultimi vent´anni il potere deterrente dei controlli e delle sanzioni è andato declinando. Non credo che la maggioranza dei nostri businessmen siano degli imbroglioni, ma la tendenza a fare il proprio interesse a spese dell´azienda si è diffusa».

Nel suo libro come nei suoi editoriali settimanali, lei non è tenero con i suoi quasi-colleghi, i giornalisti americani. Più volte li ha punzecchiati per "omissione di controllo", per non essere abbastanza vigilanti contro la manipolazione dell´informazione operata dall´Amministrazione Bush.
«Non è solo un´impressione soggettiva. Molti studi attendibili hanno dimostrato inequivocabilmente il ruolo svolto dai mass media nel preparare la guerra in Iraq. Troppe notizie che non andavano nel senso gradito all´Amministrazione sono state soppresse. Magari non si è trattato di una vera e propria censura, però le storie più critiche facevano fatica ad essere pubblicate. Oppure finivano a pagina 19, dove avevano meno impatto sui lettori, anziché in prima pagina. Lo stesso è accaduto su altri temi. I mass media non hanno svolto un ruolo critico di fronte alle cifre false che l´Amministrazione forniva sugli effetti degli sgravi fiscali. Lo smantellamento delle normative a tutela dell´ambiente, che avrà un impatto tremendo sul nostro futuro, ha cominciato ad ottenere un po´ di attenzione solo di recente».

Lei come spiega questo indebolimento della funzione critica dei mass media, che erano sempre stati uno dei punti di forza della democrazia americana?
«In parte è l´effetto dell´11 settembre, che ha creato un enorme desiderio di unità, la volontà di presentare un fronte compatto e solidale. Questo effetto è stato sfruttato cinicamente e senza scrupoli dall´Amministrazione Bush. E poi una parte importante dei mass media è ormai sotto il controllo diretto della destra, come il gruppo Murdoch».

Ma a parte il caso-Murdoch, in generale lei pensa che la crescente concentrazione dell´informazione in mano a grandi gruppi capitalistici ha avuto conseguenze politiche?
«Non so dire con certezza se gli assetti proprietari abbiano un effetto diretto sull´orientamento politico dei giornalisti. Intuitivamente è vero che le grandi aziende che controllano molte tv e giornali hanno interesse ad avere buoni rapporti col potere politico. Ma una parte del condizionamento dell´informazione avviene attraverso l´intimidazione pura e semplice. La destra è molto ben organizzata per bombardare di lettere e email ostili chi scrive cose a lei sgradite».

Lei ne sa qualcosa. Hanno cercato di coinvolgerla in uno scandalo finanziario.
«Era tutto falso, ma hanno provato a bersagliarmi. E ogni volta che esce un mio editoriale, la direzione del New York Times riceve immediatamente attacchi, lettere che mi accusano di essere un bugiardo. Io in un certo senso sono meno vulnerabile, visto che sono un professore universitario di economia e scrivere editoriali per me è solo un secondo lavoro. Se facessi il giornalista a tempo pieno, forse sarei più turbato da quel genere di campagne».

Nel denunciare le menzogne dell´Amministrazione Bush naturalmente le è capitato sempre più spesso di scrivere anche della guerra in Iraq. Oggi lei vede una via d´uscita?
«E´ un tale disastro che faccio fatica a vedere l´uscita. Inoltre non mi considero davvero un esperto. Sulla base delle analisi di chi conosce la situazione meglio, la speranza sembra essere quella di organizzare elezioni il più presto possibile, trasferire il potere a un leader sciita moderato come Sistani, e toglierci di mezzo il più presto possibile. Perfino quelli di noi che erano sempre stati contrari a questa guerra oggi sono sconcertati: le nostre paure peggiori si stanno avverando più rapidamente di quanto potessimo immaginare. Anche se il bilancio delle vittime è molto inferiore al Vietnam, le conseguenze potrebbero essere addirittura peggiori».

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