Da Il Manifesto del 13/04/2004

Politica o quasi

La bilogica della guerra globale

di Ida Dominijanni

Il bollettino quotidiano dall'Iraq invera di ora in ora le analisi più lucide che, all'indomani dell'11 settembre, individuavano nella guerra non solo la meno razionale ed efficace delle risposte possibili al terrorismo internazionale: l'impiego di uno strumento tarato sulla centralità dello Stato-nazione moderno, sull'ordine internazionale novecentesco, sulla spazialità del mondo bipolare, sulla logica simmetrica della deterrenza, nella nuova epoca globale degli spazi interconnessi, della crisi dello Stato, dei conflitti asimmetrici, della logica suicida. Adesso che il catalogo dei fallimenti si dispiega sotto i nostri occhi nel dettaglio della cronaca, è più facile fare il percorso all'inverso e risalire dai particolari al quadro generale. Prendiamo la punta dell'iceberg di questi giorni, i sequestri di civili e mercenari. Si chiama asimmetria dei mezzi impiegati, da una parte bombe ed eserciti dall'altra il tira e molla (di grande presa mediatica) sull'uccisione o il rilascio degli ostaggi, e adesso la vediamo. Si chiama privatizzazione della guerra, con le milizie private a pagamento (lauto pagamento) che crescono per entità e funzione a lato degli eserciti regolari, e adesso la vediamo. Due esempi di quella tendenza alla fine della distinzione fra civili e militari che caratterizza le «nuove guerre» fin dagli anni Novanta, e che vede i civili non solo subire ma anche fare la guerra, come già negli anni Novanta dimostrò il protagonismo delle bande armate nei Balcani e in altri scenari. Un altro aspetto, l'ennesimo, di ciò che si intende per fine dello Stato, ovvero dei suoi attributi esclusivi, per primo il monopolio nell'uso della forza organizzata. Dell'entità e delle caratteristiche dell'uso dei mercenari, «soldati di professione disponibili al miglior offerente», dà un quadro esauriente La guerra dopo la guerra. Soldati, burocrati e mercenari nell'epoca della pace virtuale (Einaudi) di Fabio Mini, tenente generale dell'esercito italiano , capo di stato maggiore del comando Nato del Sud Europa nonché comandante, per un anno, dell'operazione di paece-keeping in Kosovo: uno che di guerre se ne intende, insomma. Il quadro è istruttivo: non solo per le cifre (una crescita dell'8%annuo, fra il '95 e il 2000, del mercato delle compagnie private di sicurezza) e per l'arco di funzioni che i mercenari svolgono (guardia alle installazioni militari, sminamenti, gestione delle comunicazioni, intelligence, sorveglianza aerea etc), ma anche es oprattutto per il livello di copertura e istituzionalizzazione di cui godono, e per la sedimentazione di trasformazioni politico-miliatri che il fenomeno condensa: il passaggio dagli eserciti di leva agli eserciti professionali e dall'ideale patrio al know-how tecnologico-burocratico, la disgregazione degli imperi militari del secolo scorso (prima fra tutti l'Urss) e la formazione di un «mercato del lavoro» militare globale, intrecciato con la globalizzazione del crimine e con la delega da parte degli stati occidentali di funzioni di guerra «sporche» che è meglio evitare agli eserciti regolari. Un aspetto tutt'altro che marginale dell'esplosione dell'ordine bipolare e della globalizzazione della guerra, delle sue tecniche e dei suoi affari.

Un aspetto che però acquista tanta più rilevanza se connesso a tutti gli altri elementi del quadro politico e strategico che il dopo 11 settembre ci ha srotolato davanti, e che non lascia nulla intatto rispetto al passato e tutto ci costringe a ripensare, dall'antropologia del mondo globale ai rapporti fra mentalità occidentale e mentalità orientale alla concezione della potenza, della guerra, dell'ordine e del disordine, del nemico. In questo quadro più ampio si muove Mini e va detto che il sottotitolo del libro, che sembra fatto apposta per farci da guida nello scenario iracheno di questi giorni, non rende giustizia all'insieme del suo ragionamento, che colpisce non tanto per i dettagli tecnici sul cambiamento di paradigma delle guerre e dei guerrieri quanto per le coordinate generali dell'epoca che delinea e per i problemi ultimi (e ultimativi) a cui rinvia. Questo per esempio, il gap mentale in cui l'Occidente, e segnatamente gli Stati uniti, sta annaspando nel tentare di «rispondere» a un'offensiva terroristica di cui non decifra e non capisce la logica, prima che le singole manifestazioni. «Con l'attacco terroristico dell'11 settembre la sorpresa e il disorientamento sono stati totali e la risposta è stata l'unica immaginabile e conveniente per un sistema militare: la guerra, militare, potente, lineare e razionale». Ma esattamente questo è il punto: «l'incapacità occidentale di accettare i sistemi di pensiero e di azione non lineari». L'incapacità occidentale di decifrare le diverse concezioni «del Tempo, dello Spazio, della Vita, della Morte» che la globalizzazione porta da Oriente. E le connesse concezioni di Stategia, Politica, Mezzo/Scopo, Azione, Passività. L'Impero non sta sbagliando solo i calcoli della guerra preventiva, ha sbagliato la base logica su cui ha impostato la calcolatrice. Parola di generale.

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