Da Corriere della Sera del 13/04/2004

Le strategie

La nuova partita dell’alleato Blair

di Gianni Riotta

NEW YORK - «Resisteremo in questa storica battaglia... se falliremo, i dittatori saranno felici e i terroristi trionfanti»: così, scrivendo sull’ Observer , il premier inglese Tony Blair ha ribadito il suo impegno, morale e politico, alla nascita d’un regime democratico in Iraq. Giovedì, però, nei meeting con il presidente Usa, Bush, e con il segretario dell’Onu, Kofi Annan, Blair non userà la retorica cara a Churchill. Blair proverà a ridisegnare una strategia concreta per uscire dalle difficoltà della coalizione dopo la rivolta degli sciiti dell'ayatollah Moqtada al Sadr. Blair userà il summit angloamericano per ridare fiducia, «Abbiamo il fegato di farcela? Credo di sì» anche se «una parte importante dell'opinione pubblica occidentale resta a guardare, sperando nel nostro fallimento». L'ufficio stampa di Blair ha ritagliato, pignolo, i titoli della stampa francese: Liberation , «La coalizione in ostaggio», Le Parisien , «Gli americani non osano dirlo ma sono di nuovo in guerra... e solo Blair resta fedele alleato dell'incompetente Bush... e della sua guerra sporca». Ai giornali si può replicare, come il leader britannico sa fare, con un discorso, un saggio, una battuta accattivante. Sul campo, in Iraq, con la data del 30 giugno per il passaggio dei poteri agli iracheni ormai prossima, servono risultati, militari e politici.

L'anno scorso il primo ministro laburista ruppe con gli alleati europei, Germania e Francia, persuaso che fiancheggiando Bush in Iraq avrebbe potuto poi lanciare un'ambiziosa agenda di riforme del Medio Oriente capaci di introdurre semi di democrazia e dialogo. Secondo il piano Blair la guerra era il prezzo da pagare per essere credibili, in America e nel mondo, come partner della «road map», il complesso negoziato di pace tra Israele e palestinesi. Contestato nel suo partito dall'ex ministro degli Esteri Robin Cook, isolato dall'opinione pubblica, criticato dalla popolare rete radiotelevisiva Bbc, Blair ha resistito finora a tutto, ma il tempo stringe, per la pace e per la guerra. Cook torna alla carica: «Che Blair sia chiaro con Bush, vediamo cosa ottiene in cambio di tanta fedeltà». Il futuro di Blair è irto di trappole interne, dal leader dell'opposizione, il conservatore Michael Howard, «contiamo troppo poco in Iraq e occorre richiamare l'Onu», alle polemiche sul nuovo inviato diplomatico (David Richmond non è considerato carismatico come Sir Jeremy Greenstock, da poco richiamato). Blair sa che la sua carriera, il suo futuro personale e il posto nei libri di storia, cui tiene quanto il suo ex Dioscuro Bill Clinton, dipendono dall'esito in Iraq. Superato lo scandalo per le armi di sterminio di massa mai trovate a Bagdad, un Iraq pacificato e produttivo ridarà lustro a Blair.

Un anno fa il premier era persuaso, come il segretario di Stato americano Colin Powell, che solo un'alleanza e una forte iniziativa politica, accanto allo sforzo militare, potevano avere successo nel dopo Saddam Hussein. L'asse tra il vicepresidente Cheney, il ministro della Difesa Rumsfeld e gli intellettuali neoconservatori ha invece perseguito sul campo una ricostruzione affidata al Pentagono, senza concessioni al negoziato Israele-palestinesi. I risultati non sono stati soddisfacenti e Blair arriva a Washington dopo le visite al presidente Bush del rais egiziano Hosni Mubarak, del premier israeliano Ariel Sharon e precedendo di qualche giorno il re giordano Abdallah. Sharon ha gettato sul tappeto, con la tradizionale irruenza, il ritiro da Gaza e l'annessione di parte del West Bank, isolando Israele dietro il muro di difesa. L'ex ambasciatore americano a Gerusalemme, Martin Indyk, è convinto che Bush si dirà d'accordo con il piano Sharon: «E' una coreografia già pronta». Mubarak ha promesso che l'Egitto addestrerà la polizia palestinese contro i terroristi, ma ha detto «no grazie» alla richiesta di Bush di mandare poliziotti egiziani in pattuglia a Gaza.

Anche Blair proverà allora una strada d'azzardo, come sempre nella sua vita politica. Sosterrà la compatibilità del ritiro di Sharon con la «road map», il piano per la pace fermo dopo la ripresa del terrorismo suicida e le ritorsioni di Israele. La spallata di Sharon, a giudizio di Blair, potrebbe dare lo choc necessario a riprendere negoziati capaci di riconsegnare un certo grado di legittimità agli anglo-americani impegnati nel teatro iracheno della guerra globale.

Sarebbe un primo passo. Il terrorismo fondamentalista, la guerriglia dei sunniti legati al Baath di Saddam e la rivolta sciita della milizia Mahdi dell'ayatollah ribelle al Sadr, chiamano la coalizione a una nuova strategia. Quando Tim Russert, il più rispettato giornalista televisivo del momento, ha chiesto al governatore americano a Bagdad Paul Bremer «A quali iracheni pensa di passare i poteri il 30 giugno», la risposta è stata imbarazzata e imbarazzante, «Questa è una buona domanda». Blair preferirebbe buone risposte, ma quali? Un esperto del Pentagono confessa al New York Times : «Altro che 30 giugno! La scadenza che incombe è perdere la fiducia degli iracheni». Gli strateghi militari di Bush ripeteranno che la guerriglia non batterà la coalizione, al contrario del Vietnam i ribelli non hanno il retroterra di Mosca e Pechino e la popolazione è incerta. I marines, a Falluja, combattono con tecniche di antiguerriglia, non con i bombardamenti a tappeto del 1972. Senza un disegno politico però, le forze di coalizione saranno costrette a una defatigante battaglia di attrito. La Nato sarà evocata, ma è difficile che arrivino truppe in forza. L'Onu sarà a sua volta evocata e Annan pressato da Blair per una nuova risoluzione che legittimi meglio gli alleati, mentre il suo inviato, Lakhdar Brahimi, dovrà mediare con i capitribù iracheni per isolare terroristi e militanti. Il presidente della commissione esteri del Senato, Richard Lugar, repubblicano, ha offerto una sponda a Blair chiedendo il prepensionamento di Bremer e la nomina di un ambasciatore americano, forte di una task force civile di 3.000 diplomatici. A Bush Blair dirà che è l'ora di riparlare con il cancelliere tedesco Schröder e il suo ministro Fischer, e di riaprire il discorso con il presidente francese Chirac e il suo neo ministro degli Esteri Michel Barnier, meno ideologico del predecessore de Villepin.

In Iraq la settimana di Passione ha cancellato le speranze di una prossima resurrezione gloriosa. La strada sarà lunga e dolorosa e la forza non basta. Blair non mollerà di un pollice in guerra, ma sa che il tempo stringe per una credibile alternativa civile. Lo ascolterà il presidente americano? Stretto dalla Commissione d'inchiesta sull'11 settembre e i bollettini militari aspri, Bush è in difesa. Per stanotte ha convocato una conferenza stampa e vedremo quale agenda ha preparato nel weekend pasquale in Texas e se conterrà tracce delle appassionate e rischiose proposte di Tony Blair.

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