Da La Repubblica del 12/03/2004

CONFINI/ La nuova europa. Intervista con lo scrittore

Un processo fondamentale inquinato ancora da vecchi veleni

C'è la paura sbagliata che unirsi significhi livellare le diversità che vanno protette
Le varietà non sono mai fiorite tanto come sotto l'Austria-Ungheria o sotto l'impero romano
IL primo maggio l'Unione si allarga con l'ingresso della Slovenia e di altri nove paesi: l'evento è certamente storico

di Paolo Rumiz

TRIESTE - Lo stani in una sera di vento artico, infrattato in un caffè dalle luci fioche, nel cuore di questa città italianissima e asburgica che oggi pare Pietroburgo, col Mediterraneo che proprio qui davanti diventa Mare del Nord, prende forma di canale, lambisce la chiesa serbo-ortodossa, la casa di Joyce, i palazzi della grande borghesia commerciale che fu. Una volta, questo spazio d'acqua frustato dalla bora era il punto zero della trigonometria austro-ungarica: oggi segna il baricentro di una Mitteleuropa che rinasce spaesata e con poca anima. Un mondo rimasto per 90 anni nel letargo dei caffè letterari e che oggi torna in silenzio, vive senza fanfare l'attesa della storica caduta della frontiera. Il vento fa tremare i finestroni, a un tavolino di marmo Claudio Magris - il grande narratore del Danubio - lavora al suo ultimo libro, una storia d'oltremare, in bilico tra il Pacifico e il Mediterraneo di casa sua. Manca poco al primo maggio, data d'ingresso nell'Unione della Slovenia e di altri nove Paesi, ma la sua Trieste, ancora percorsa dal fantasma di vecchie lacerazioni e pulizie etniche, non sembra vivere la storicità dell'evento. Sul selciato, tra i lampioni, non c'è anima viva, le raffiche sottozero creano un vortice buio, spingono le acque a Nordovest, verso le Alpi, come un grosso fiume di risorgiva.

Dunque professore, la sua Mitteleuropa entra in Europa.
«Per me è un momento straordinario, non troppo diverso dalla conquista di un'unità nazionale. Vede, sono tra quelli che sperano che l'Unione possa diventare uno stato vero, che decide a maggioranza, con i cittadini eguali di fronte alla legge. E le nazioni vissute come regioni».

Ma la gente s'emoziona poco.
«Qui a Occidente si vive l'allargamento con sorprendente minimalismo. Non c'è più il pathos dei padri fondatori. Dopo la guerra loro sentivano l'Europa come un cambiamento enorme. Noi no. L'Italia non è pronta a viverla come la costruzione di una grande meta».

Perché?
«Forse si sente Bruxelles come complicazione, apparato burocratico. Forse, come dice l'amico Padoa Schioppa, si vede che l'Unione conta poco. E magari s'è allargata senza essere abbastanza solida...».

Nemmeno a Est c'è innamoramento.
«C'è un clima desolante anche lì. La consapevolezza del processo è addirittura minore che da noi. Certo, c'è la voglia di uscire da antiche soggezioni, da antiche minorità. Ma poi...».

Un crepuscolo della Mitteleuropa?
«Mi spiego. La Francia non sarà meno francese stando nell'Unione. La Germania stessa cosa. A Varsavia o Bratislava, invece, la gente mi sembra pronta a buttare a mare la storia, le tradizioni. Ho paura che venga spazzato via tutto».

Colpa di chi?
«Sotto l'Urss questi Paesi si sono abituati a essere satelliti di una grande potenza. Così oggi per loro è quasi automatico guardare agli Stati Uniti. Temo che vedano l'Europa solo come passo intermedio verso l'Atlantico».

Per esempio?
«Gli amici che ho in Polonia o Ungheria li sento ormai scollegati dal grande retaggio ironico e individualistico che nutrì la grande dissidenza. Un clima che fu uno degli ultimi, grandi fenomeni di umanesimo classico dell'Europa tutta. Una volta, quando si voleva trovare la cultura della vecchia Europa, la si trovava a Est fra i dissidenti anticomunisti. Oggi, sparito il comunismo, sono spariti anche questi fondamentali anticorpi».

Una perdita per tutti...
«Havel, quand'era in galera, scrisse che la falsificazione della vita nella stagione sovietica era solo una sottospecie, estremizzata, di una falsificazione più generale. Era un memento che mostrava all'Occidente il suo latente destino».

Quanto pesano le brutte memorie nel processo europeo?
«Su certi confini i vecchi veleni sono ancora in sospensione. A Trieste e Gorizia per esempio. Storie di persecuzioni ed eccidi che la politica continua a evocare. Ma proprio per questo il processo è ancora più fondamentale. Bisogna andare oltre, finirla una buona volta».

E la paura degli stati-nazione?
«Certo le nazioni dell'Est possono invocare ragioni per sentirsi meno tranquille di altre. L'Est, si sa, ha la memoria lunga. A Varsavia il 1939 è una cosa molto più recente che a Parigi. Ma egualmente non penso che, oggi, la Polonia tema davvero i tedeschi. La paura vera è un'altra».

Quale?
«Una paura sbagliata. La paura che l'Unione comporti un livellamento delle diversità. Io sono fermamente convinto che l'Europa protegga le cultura e le minoranze in modo sicuramente migliore di quanto non facciano gli stati nazione».

Nostalgie imperiali?
«Le varietà non sono mai fiorite tanto come sotto Roma e l'Austria-Ungheria. Il conte Leopold von Sacher Masoch racconta il magnifico senso di sicurezza che provava il contadino ruteno, sempre vessato dalla piccola nobiltà polacca, al momento di passare accanto all'aquila bicipite. Ecco, spero che l'Europa Unita sia proprio così, decentrata e liberale».

Riecco la vecchia Austria...
«Dico solo che a proteggere le diversità sono stati i grandi sistemi, non il particolarismo selvaggio, e questo vale tanto più oggi, con la globalizzazione. Un codice di garanzie è sempre meglio del Far West. L'Europa offre queste regole. Solo l'Europa può impedire che il grande mangi il piccolo, che Berlino compri Bratislava. O che spariscano i Ruteni, i Sorbi, e altri piccoli popoli. L'Unione è forse l'unico modo per non perdere la sovranità».

Ma non si investe nulla per dirlo, per tranquillizzare le ansie identitarie del cittadino globale...
«Il fatto è che oggi c'è in giro un'ansia nuova, meno controllabile. Parlando con i miei studenti è venuto fuori un concetto inquietante. Per la prima volta nella nostra storia, una o due generazioni di uomini, grosso modo la mia e la loro, hanno la netta sensazione di vivere meglio di quelle venute prima e anche di quelle che verranno dopo. Mi torna in mente una frase del carabettista Karl Walentin, maestro di Brecht: una volta il futuro era migliore...».

Il tramonto del futuro...
«Posso anche capire che molti vivano questi tempi con la libertà vertiginosa dell'avventuriero... consumando tutto subito, come nel film su 007... Ricorda la battuta? Spendeteli subito, comandante Bond! Ma c'è ancora tanta gente che pensa al domani. Il risparmio non è morto affatto. Basta pensare alle vittime del crack Parmalat... Un'infinità».

Agli europei basta l'ombrello americano?
«Vede, un tempo nessun focolaio di rivolta poteva mettere in discussione l'Impero. Il potere era anche potere di controllo, quindi la differenza tra chi aveva la forza e chi non l'aveva era immensa. Oggi, per la prima volta un gruppetto di persone con un po' di conoscenze tecnologiche possono mettere in crisi la massima potenza mondiale. Se moltiplichi questo per la potenza degli arsenali di oggi, c'è davvero da aver paura».

I nuovi imperi sono deboli, dunque.
«Il paradosso è che proprio nel momento in cui potremmo avere un'assoluta pax mondiale, come ai tempi della Pax Augustea ecco che l'instabilità dilaga, ecco che non è più possibile vincere guerre».

Il terrorismo...
«Accadono cose incredibili, inconcepibili... Se nel 2000 qualcuno avesse detto che due aerei di linea guidati da terroristi avrebbero abbattuto le Torri Gemelle, quel tale sarebbe stato preso per matto. Invece è accaduto».

Anche Roma crollò.
«La catastrofe del mondo antico fu un disastro di dimensioni immani. Roma da un milione di abitanti scese a 14 mila, credo. Ma poi, almeno, la vita riprese. Oggi per la prima volta ci si chiede se un eventuale disastro della massima potenza lasci ancora spazio a un'epoca nuova, a una rinascita. E' inconcepibile che miliardi di individui possano tornare all'autarchia...».

La letteratura europea è ancora una voce autorevole?
«Premetto: non mi interessa affatto che le arti siano sempre in un momento di fioritura. E' assolutamente normale che vi siano periodi di letargo: talvolta è solo un' utile, feconda latenza. Detto questo non mi pare affatto che l'Europa sia assente».

Dicono che vinca l' America.
«Lo so, dicono che ci sia un primato della letteratura americana, forse perché coinvolta in certe trasformazioni del mondo al tempo del predominio dei bip sugli atomi. Ma non vedo nessuna subalternità europea».

Dei nomi?
«Cito nomi a caso: Xavier Marias, Munoz Molina, il nostro Belville, il povero Seebald morto da poco. E poi Mulitsch, e Nooteboom, Gustavsson. Certo, l'Europa centrale e danubiana ha perso grandi nomi come Danilo Kis o Bohumil Hrabal...».

...in Polonia c' è ancora Milosz.
«Ah, Milosz, il Grande Vecchio, il Nobel, l'autore de La mia Europa. L'ho conosciuto a Washington, poi a Budapest. Un uomo gagliardo, epico, fraterno, con quella visione clemente della vita che è tipica dei cattolici veri. A 93 anni è ancora vitale, amante del buon vino e delle donne».

Cosa ricorda di lui?
«Molte cose, ma una in particolare, che ho citato fino all'ossessione. Il suo ricordo dello zio Oscar. Il quale gli diceva: difendi la patria se è in pericolo, ma non permettere mai che questo imperativo diventi il primo valore della tua vita. Un grande insegnamento. No alla patria come feticcio, idolatria... L'ebraismo è grande se non altro per questo, il bando dell'idolatria...».

Havel lamenta l'assenza di un mito per l'Europa.
«Vede, per me la parola Europa già da sola equivale a un'idea forza straordinaria, non a una falsificazione irrigidita... Sono cresciuto nel fantastico mito della vecchia Europa, nel senso grande della sua appartenenza, di una cultura comune che va da Edipo e Antigone fino agli ideali di "liberté, égalité, fraternité"...».

Intanto, solo un europeo su cento sa il senso della parola Europa.
«Serve un mito, certo. Ma guai se fosse una delle ridicole falsificazioni storiche del nazionalismo, quelle nate quando le nazioni europee si scannavano. Servono miti fondativi veri, apertamente immaginari, come quelli greci. Miti che non sono falsi proprio nella misura in cui non pretendono di essere veri...».

E allora?
«Allora dico che miti così non è facile costruirli in provetta... Forse più che a miti si tratta di dare forma concreta a un senso di comune appartenenza... O forse si tratta di buttarsi nel futuro senza pensarci troppo, operando nel concreto. Dentro il processo di crescita».

Allora, stavolta il futuro sarà migliore?
«L'impero romano fu uno straordinario fattore di progresso. Pose un limite alle comunità chiuse, brutali, autarchiche, tribali, a brutti mondi fondati sull'umiliazione dell'individuo e della donna... E' Abramo, non Roma, che rompe gli idoli di suo padre. Anche l'Europa può essere questo grande fattore di progresso».

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