Da La Stampa del 04/04/2004

L'impero europeo

di Barbara Spinelli

A partire dal primo maggio, l’Unione europea cambierà corporatura, fisionomia, frontiere. Si estenderà a otto Paesi dell’Europa orientale, che fino all’89 appartenevano al blocco anti-occidentale sovietico, e nella stessa occasione accoglierà Cipro e Malta. Le nostre classi dirigenti tendono a minimizzare l’evento, come accade a chi vuol nascondere una realtà sgradevole, costosa, squilibrante, dunque impopolare. La vecchia Europa si comporta come se per conto suo vivesse oggi nel migliore dei mondi possibili, e si fosse trovata un giorno, spinta dai venti della storia, a dover fare un indigesto sacrificio per salvare l’altra parte d’Europa, fino a ieri sequestrata a Est.

In realtà le cose stanno diversamente: negli ultimi anni le istituzioni europee si sono sobbarcate in un’impresa monumentale, per risanare società rovinate dal comunismo e prepararle all’adesione. Un nation building così riuscito non ha precedenti e già oggi dà a quest’Europa una nuova dimensione, di cui essa potrebbe esser fiera se lo ammettesse.

In genere tuttavia l’allargamento non viene presentato così, a Ovest: vien presentato come un atto di generosità imposto da forze esterne, che i Quindici debbono compiere ma che finirà con l’esser forse dispendioso e disgregativo. Si parla degli orientali come di parenti poveri, che dall’Europa ricaveranno molti vantaggi senza che questi diventino, per l’Unione, una comune ricchezza. C’è una singolare mescolanza di accidia pessimista e di ottimismo senza lungimiranza, in questa riluttanza minimalista della vecchia Unione. C’è il pessimismo di chi ha la vista troppo corta, che ha lo sguardo fisso sui perturbamenti già provocati dall’allargamento: i discordanti rapporti con Washington in Iraq, la povertà degli orientali, l’aumento dell’emigrazione dentro un’Unione estesa. E c’è uno strano inebetito ottimismo di chi la vista sembra averla persa del tutto: l’Europa va bene così com’è - dicono molti fra i Quindici - e allargarla rischia di annacquare qualcosa che a loro parere è già compiuto.

L’ottimismo è strano perché incoerente. Da una parte esso si gloria di un’unione apparentemente funzionante, non bisognosa d’un grande progetto comune dopo quello dell’euro: un’unione che verrebbe minacciata più che esaltata dall’allargamento. D’altra parte l’ottimismo dello status quo è rinnegato dai fatti: son stati pur sempre i 15 a gettare le basi per un’Europa qualitativamente diversa, non solo grazie alla costituzione ma alla nuova grandezza continentale che è nell’interesse dell’Unione e che è stata facilitata dalla vasta operazione di assorbimento democratico-economico dell’Est.

Quest’immagine di un’Europa indebolita dall’allargamento non corrisponde al vero, e nasce dal fatto che i Quindici sono come dilaniati fra le vecchie illusioni e una coscienza nuova e però occultata. Vecchia illusione, perché vivono come se per parte loro potessero continuare a conciliare quello che non è più conciliabile: l’immaginaria sovranità degli Stati, e l’assenza di una sovranità politica delle istituzioni comunitarie. Per questo minimizzano la riunificazione con l’altra Europa: perché fingono di non vedere gli inconvenienti dello status quo, e dunque neppure apprezzano la nuova dimensione strategica dell’Unione.

Coscienza occultata, perché sono stati loro stessi e la Commissione a integrare con ardimento l’Est, senza tuttavia trarne concettualmente le conseguenze. Quel che non vedono, è che anche a Occidente i governi sono intrinsecamente fragili se l’Europa non si fa, come avviene per gli europei centro-orientali costretti ad abbandonare sovranità appena recuperate. Lo si è visto ultimamente in Francia: il non farsi dell’Europa destabilizza le maggioranze governative - di destra o sinistra, occidentali o orientali - punendo sistematicamente chi non può mantenere gli impegni presi nelle campagne elettorali. E così via, in un circolo vizioso, per il semplice fatto che nessun dirigente osa dire la verità: nessuna importante riforma è più possibile se la dimensione della politica resta nazionale, e se non si crea quell’Europa che, sola, può conferire agli Stati una dimensione e un mercato e una prospettiva più vasti.

I minimizzatori dell’allargamento fingono di difendere l’Unione ma in realtà custodiscono una sovranità nazionale che non posseggono più, e un’Unione che ancora non ha la taglia per restituire agli europei quel controllo sul proprio destino che i governi hanno smarrito e che gli elettori tuttavia insistentemente rivendicano. Cos’altro è infatti, «mantenere la parola data» nelle campagne elettorali, se non la capacità di «controllare il proprio destino»? Gli Stati singoli non ce la fanno più, da soli. Con un’Europa forte potrebbero, e precisamente quest’Unione va ora costruita, facendo sì che la diminuita sovranità imposta a Est sia interiorizzata anche a Ovest.

Se le cose stanno così l’allargamento è un’opportunità straordinaria, e non un sacrificio né un pagamento di arretrati storici né un intralcio alle istituzioni o all’economia dell’Unione. Non significa neppure che ci siamo addormentati, dopo l’euro. Il grande progetto lo abbiamo già in mano: è l’allargamento stesso (la riunificazione d’Europa, dicono a Est) e ora si tratta di farlo fruttare allo stesso modo in cui Beniamino Franklin invitò a edificare la repubblica nata dalla costituzione Usa nel 1787: «Ora avete una repubblica, sempre che sappiate mantenerla» («A republic, if you can keep it»).

Così gli europei: con l’allargamento disporranno per la prima volta d’una statura fisica di carattere strategico, che è in grado di dar peso alla loro presenza nel mondo. Avranno un formidabile strumento di politica estera ed economica, se sapranno perfezionare l’Unione dandole i mezzi, le istituzioni, i metodi di decisione, la costituzione, le politiche di cui abbisogna per affermarsi. Il voto a maggioranza sarà essenziale, molti orientali non sono convinti. Il politologo polacco Jan Zielonka ha denunciato gli svantaggi dell’unanimità: «L’unanimità richiede ogni volta compensi in denaro agli Stati ostruzionisti, e induce a adottare il minimo comune denominatore». Questo vuol dire che l’unanimità è non solo immobilizzante, ma dispendiosa. Se essa verrà abolita, la nuova dimensione dell’Unione diverrà una vera risorsa. 75 milioni di cittadini s’aggiungeranno ai 379 milioni esistenti, dando vita a un continente di 454 milioni di abitanti: è una forza geopolitica paragonabile agli Usa, alla Russia, all’India, alla Cina. Con questa corporatura acquisteremo peso, e udienza.

Considerata dall’Occidente europeo non la si vede così. Ci si comporta come se l’allargamento non fosse che un’estensione dell’esistente, e non comportasse un autentico salto di qualità. Come abbiamo visto, viene soprattutto sminuita l’opera, immane, che la Commissione ha compiuto per integrare i candidati dell’Est e conformarli alle norme comuni. Prima ancora d’entrare, questi hanno dovuto allinearsi al cosiddetto acquis communautaire, ai 31 imperativi senza i quali l’adesione sarebbe stata impossibile (disposizioni transitorie sono previste per l’agricoltura e la libera circolazione delle persone).

Questi 31 imperativi (o capitoli dell’Acquisito comunitario) riguardavano la trasparenza dei mercati, il funzionamento dell’amministrazione e del servizio pubblico, i rapporti con le minoranze etniche, la lotta alla corruzione. Riguardavano il libero movimento delle merci, delle persone, dei servizi, dei capitali, e ancora: il diritto delle società, il sistema giuridico, la concorrenza, e la politica sociale, l’ecologia, l’educazione, i media. I democratici dell’Est sono oggi allibiti di fronte alla mole di lavoro - acribico, ostinato, esigente - svolto dalla Commissione sotto la guida di Prodi, che ogni anno produceva i suoi rapporti sull’avanzamento dell’integrazione non tanto economica quanto giuridica, amministrativa, democratica. «L’atteggiamento negoziale dell’Unione europea, sempre intransigente sul piano dei principi, ha insegnato alla gente comune dell’Est che l’economia di mercato dipende dall’imperio della legge (dal rule of law), e che le due cose hanno da essere indivisibili», ha detto Jiri Pehe, ex consigliere di Václav Havel.

Molto resta da fare ed è sfuggito alla vigilanza di Bruxelles. La Slovenia, ad esempio, entrerà nell’Unione senza aver risolto il problema di 130.000 sloveni che son stati «cancellati» e sono non-cittadini, perché non iscritti in tempo alla nuova cittadinanza e non etnicamente omogenei (serbi, croati, albanesi, bosniaci). Ma gran parte è fatto e ben più gravi sarebbero stati i costi della non adesione, se i disordini etnici avessero potuto metter radice a Est. Il prezzo pagato per l’integrazione dell’Est è comunque molto più basso del prezzo pagato per sedare militarmente la violenza etnica nei Balcani.

Questo successo tendiamo a sottovalutarlo, ma il suo significato è enorme. A partire dal vertice di Copenhagen, che nel ’93 predispose l’allargamento, l’Europa si è impegnata in un’immensa operazione di nation building, in un’area disgregata dal comunismo, e ha anche creato un modello mondiale. Non si è trattato di ricostruire Stati-nazione classici, come avviene nel nation building, ma di puntellare Stati che sin dall’inizio accettano sovranità superiori alla propria. Si è privilegiato l’imperio della legge, alla rifondazione delle nazione etnica. È un grande contributo che l’Europa può dare al nation building, nei futuri progetti per il grande Medio Oriente o in Asia Centrale.

Con la sua nuova dimensione continentale, l’Europa ha tutte le carte per divenire una potenza. La sua natura muterà, perché i particolarismi nazionali son tendenzialmente superati. Alcuni vedono il suo futuro in una sorta di costituzione imperiale, come Zielonka o il politologo ceco Rupnik o Claudio Magris: è la soluzione preferibile. Magris ha detto di recente cose assai convincenti: «Solo i grandi insiemi imperiali hanno saputo proteggere le minoranze(...), l’Europa può proteggere le culture e le minoranze in modo sicuramente migliore di quanto non facciano le nazioni(...). Le varietà non sono mai fiorite tanto come sotto Roma e l’Austria-Ungheria» (intervista a Paolo Rumiz, La Repubblica, 12-3-2004).

La sovranità che abbiamo perso negli Stati, è in questo nuovo impero-Europa che possiamo riconquistarla, facendone un mezzo per contare nel mondo. E se gli orientali non l’hanno ancora capito, è perché imitano pedissequamente i gretti nazionalismi della vecchia Unione, con i suoi governi nazionali che la tengono paralizzata ed esitano fra conservatorismo e ardimento. La grande Europa è il nostro progetto, ma come dice Franklin, può esserlo a una condizione: «If you can keep it» - se sapremo darci i mezzi e le istituzioni e le politiche per darle sostanza.

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