Da Corriere della Sera del 03/04/2004
Sharon avverte Arafat e tratta con Abu Ala
di Antonio Ferrari
Alla vigilia del lungo ponte di Passover, la Pasqua ebraica, il premier israeliano Ariel Sharon consegna alla stampa una serie di minacciosi avvertimenti. Uno su tutti: «Arafat? Uomo segnato. Non gli consiglierei di sentirsi immune». Un ruvido segnale, ingigantito dall'accostamento fra il presidente palestinese e il leader libanese dell'Hezbollah Hassan Nasrallah, che non è necessariamente il prologo all'esecuzione di una condanna a morte. Il ruggito del premier, che si prepara a sottoporre agli Stati Uniti il piano di ritiro unilaterale e lo smantellamento degli insediamenti ebraici nella Striscia di Gaza, può avere infatti tre motivazioni: intimare ad Arafat di non intralciare il governo palestinese; placare la furia dei suoi oppositori di destra, contrari a qualunque concessione; far capire a Bush, che lo riceverà a metà aprile, che Israele non mostra segni di acquiescenza o di debolezza.
Sharon alza il tiro, contando sull'effetto provocato dall'uccisione mirata del leader di Hamas Yassin, nel momento in cui il primo ministro palestinese Ahmed Qorei (Abu Ala) quasi gli tende la mano, riconoscendo il devastante danno provocato dagli attentati-suicidi. Ci sono infatti voluti due mesi, che nel Medio oriente insanguinato sono un'eternità, per convincere Abu Ala che l'iniziativa di Sharon è un passo positivo. Comunque da considerare attentamente, in quanto rompe un tabù: appunto l'inamovibilità degli insediamenti, cioè l'ostacolo che ha fatto deragliare tutti i piani di pace.
Due mesi di inutile attesa, scanditi da stragi, attentati suicidi, omicidi mirati, rappresaglie, per comprendere che quella decisione è un «segnale di speranza», come adesso riconosce Abu Ala. Che si spinge oltre, con una dichiarazione di chiara e dura condanna degli attacchi dei kamikaze palestinesi contro i civili israeliani. Attacchi che «producono l'accumulo dell'odio, la perdita di fiducia tra i due popoli e impediscono di avviare il processo di pace».
Dopo aver tentennato, per carattere ma soprattutto perché costretto dall'ostinata intransigenza di Arafat, Abu Ala sembra riprendere dunque il sentiero del suo predecessore, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), spinto alle dimissioni da chi si opponeva a qualsiasi riforma: come quella di togliere al leader il controllo degli apparati di sicurezza, cioè le varie polizie che dovrebbero mantenere l'ordine e prevenire gli attentati degli estremisti.
Il credito che adesso Abu Ala riconosce a Sharon non è senza condizioni. Il premier palestinese inserisce infatti il piano di Gaza in un quadro più ampio, che comprende il successivo ritiro dalla Cisgiordania. E chiede che il disimpegno venga avviato coordinandolo con l'Anp. Un passo che il primo ministro israeliano non accetta. Dice, in sostanza Sharon: se ho deciso un ritiro unilaterale, significa che non ho trovato una controparte pronta a collaborare attivamente per «migliorare una situazione diventata intollerabile». Il capo del governo israeliano si mostra intransigente anche perché deve superare l'esame del suo partito, il Likud, profondamente diviso tra chi ritiene che lo smantellamento delle colonie di Gaza sia un «suicidio», e chi invece è pronto ad accettare «dolorose concessioni», come le definisce il premier.
Sharon sostiene che lo status quo è pericolosissimo per la sicurezza di Israele. Ma anche Abu Ala sa che la maggioranza dei palestinesi è stanca e sfiduciata, e non sottovaluta il vigoroso appello di decine di intellettuali, contrari agli attacchi contro i civili.
Ma, come la storia recente ha dimostrato, le due parti non possono essere lasciate sole. Israele chiede a Washington una serie di garanzie per avviare il piano-Gaza, che di fatto rimpiazza la fallita Road Map. L'Amministrazione americana, sempre convinta dell'idea di due Stati che vivano l'uno accanto all'altro in pace e sicurezza, tenterà, per l'ennesima volta, qualche acrobazia per raffreddare il conflitto fra due diritti. Impresa titanica. Come tutte quelle che l'hanno preceduta.
Sharon alza il tiro, contando sull'effetto provocato dall'uccisione mirata del leader di Hamas Yassin, nel momento in cui il primo ministro palestinese Ahmed Qorei (Abu Ala) quasi gli tende la mano, riconoscendo il devastante danno provocato dagli attentati-suicidi. Ci sono infatti voluti due mesi, che nel Medio oriente insanguinato sono un'eternità, per convincere Abu Ala che l'iniziativa di Sharon è un passo positivo. Comunque da considerare attentamente, in quanto rompe un tabù: appunto l'inamovibilità degli insediamenti, cioè l'ostacolo che ha fatto deragliare tutti i piani di pace.
Due mesi di inutile attesa, scanditi da stragi, attentati suicidi, omicidi mirati, rappresaglie, per comprendere che quella decisione è un «segnale di speranza», come adesso riconosce Abu Ala. Che si spinge oltre, con una dichiarazione di chiara e dura condanna degli attacchi dei kamikaze palestinesi contro i civili israeliani. Attacchi che «producono l'accumulo dell'odio, la perdita di fiducia tra i due popoli e impediscono di avviare il processo di pace».
Dopo aver tentennato, per carattere ma soprattutto perché costretto dall'ostinata intransigenza di Arafat, Abu Ala sembra riprendere dunque il sentiero del suo predecessore, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), spinto alle dimissioni da chi si opponeva a qualsiasi riforma: come quella di togliere al leader il controllo degli apparati di sicurezza, cioè le varie polizie che dovrebbero mantenere l'ordine e prevenire gli attentati degli estremisti.
Il credito che adesso Abu Ala riconosce a Sharon non è senza condizioni. Il premier palestinese inserisce infatti il piano di Gaza in un quadro più ampio, che comprende il successivo ritiro dalla Cisgiordania. E chiede che il disimpegno venga avviato coordinandolo con l'Anp. Un passo che il primo ministro israeliano non accetta. Dice, in sostanza Sharon: se ho deciso un ritiro unilaterale, significa che non ho trovato una controparte pronta a collaborare attivamente per «migliorare una situazione diventata intollerabile». Il capo del governo israeliano si mostra intransigente anche perché deve superare l'esame del suo partito, il Likud, profondamente diviso tra chi ritiene che lo smantellamento delle colonie di Gaza sia un «suicidio», e chi invece è pronto ad accettare «dolorose concessioni», come le definisce il premier.
Sharon sostiene che lo status quo è pericolosissimo per la sicurezza di Israele. Ma anche Abu Ala sa che la maggioranza dei palestinesi è stanca e sfiduciata, e non sottovaluta il vigoroso appello di decine di intellettuali, contrari agli attacchi contro i civili.
Ma, come la storia recente ha dimostrato, le due parti non possono essere lasciate sole. Israele chiede a Washington una serie di garanzie per avviare il piano-Gaza, che di fatto rimpiazza la fallita Road Map. L'Amministrazione americana, sempre convinta dell'idea di due Stati che vivano l'uno accanto all'altro in pace e sicurezza, tenterà, per l'ennesima volta, qualche acrobazia per raffreddare il conflitto fra due diritti. Impresa titanica. Come tutte quelle che l'hanno preceduta.
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