Da Le Monde del 16/03/2004

Dopo l’11 marzo a Madrid: come reagire a un nemico invisibile pronto a colpire col terrore

Democrazia, unica arma contro l'odio

di Jean-Marie Colombani

Bisogna ammetterlo, e considerarne le conseguenze: l’Unione europea, colpita a Madrid, l’11 marzo è entrata a sua volta nell’era sinistra del terrorismo di massa. Come gli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 deve far fronte a un avversario inafferrabile, che non avanza rivendicazioni particolari né fa riferimento a un territorio specifico, come l’Eta o l’Ira. Se la prende con le società democratiche, attaccandole perché sono tali: aperte, fluide, rispettose dei diritti umani. La democrazia è il nemico, qui come in terra d’Islam!

E sarebbe vano e assurdo credere che l’uno o l’altro Paese siano più o meno al riparo a seconda di come si posiziona la loro rispettiva politica estera: la Francia non è più al sicuro della Spagna o dell’Italia; del resto la Francia è già stata colpita nei suoi cittadini a Karachi, come è successo all’Australia a Bali, al Marocco a Casablanca e da ultima alla Spagna. Il territorio è uno solo e il bersaglio è sempre lo stesso, dal punto di vista di Al Qaeda. Le nostre società sono obiettivi facili, da colpire in nome della lotta contro «i crociati e i giudei», per reagire alla presunta oppressione di cui sarebbero vittima i Paesi musulmani.

In nome di tale lotta, questo avversario mette in opera una strategia terroristica di micidiale semplicità: uccidere il più gran numero possibile di persone. Non ha un vero obiettivo politico, a parte impedire lo sviluppo della democrazia nelle società musulmane. Non ha che un solo criterio per valutare il proprio successo: il numero delle vittime. Non ha un Paese o un gruppo di Paesi bersaglio, mentre in alcuni Paesi dispone di solide retrovie (Afghanistan, Pakistan e forse Arabia Saudita). Non si tratta di una guerriglia localizzabile in un perimetro preciso; è una grande organizzazione che probabilmente non ha un vero «centro», è strutturata in cellule dormienti ed è dotata di una rete transfrontaliera di supporto logistico e di un gran numero di candidati al martirio, piazzati in Occidente dopo aver subìto in Oriente - soprattutto Afghanistan e Pakistan - l’indottrinamento di qualche leader islamico estremista. E’ un avversario che non risponde alla logica della dissuasione politica e con cui non è possibile intavolare negoziati. Non esiste diplomazia filo-questo o filo-quello che possa mettere uno Stato al riparo dai fulmini della nebulosa Al Qaeda.

E’ un avversario, infine, che non risponde alla logica della dissuasione militare. Benché sia stato temporaneamente indebolito dalle operazioni condotte in Afghanistan, non ha né territorio né popolazione da difendere, e nemmeno installazioni militari o civili da proteggere, a parte i campi di addestramento ospitati qua e là da Paesi amici. In questo senso non lo si combatte con una «guerra» come credono George Bush e la sua squadra; tanto meno con una guerra contro l’Iraq. Perché chi mai potrebbe firmare una resa, con chi mai si potrebbe concludere una pace? La forza di Al Qaeda consiste nella sua quasi-inesistenza materiale, nella sua non-localizzabilità. A guidare Al Qaeda è più un’idea che uno stato maggiore; dispone più di fedeli che di soldati. Non ha che un solo programma: l’odio.

Ma come si può lottare contro un tale pericolo? Il metodo americano è noto. Legittimo in un primo tempo - perché l’Afghanistan era un nemico vero, tenuto conto del ruolo che svolgevano i talebani nel dispositivo di Al Qaeda -, ha poi condotto gli Stati Uniti ad aprire in Iraq una parentesi dannosa, illegittima e inutile, che i tragici eventi di Madrid dovrebbero spingere a chiudere. Da una parte perché è certa la falsità di uno dei pretesti della guerra, cioè il legame fra Baghdad e Al Qaeda - anzi si sta osservando il contrario, cioè che l’infiltrazione dei seguaci di Bin Laden avviene in conseguenza della guerra; dall’altra perché il proposito complessivo di «rimodellare» tutta la regione tirando una pedata al formicaio iracheno si è rivelato, finora, né plausibile né apportatore di minor terrorismo.

Del resto sarebbe più corretto parlare di «metodo Bush» anziché di «metodo americano», dato che sta prendendo piede, dietro al candidato democratico John Kerry, una critica radicale a una politica estera denunciata come esclusivamente ideologica. E’ l’ideologia che ha fatto dire disastrosamente a Donald Rumsfeld che Eta o Al Qaeda «sono la stessa cosa». Forse è la stessa ideologia che ha spinto il premier Aznar alla menzogna di Stato che gli spagnoli hanno punito. Come gli americani potrebbero punire le menzogne di George Bush.

Come combattere allora? Certamente non con più nazionalismo, mentre cresce la tentazione, in Francia come in altri Paesi, del ripiegamento e del protezionismo. Più che mai bisogna perseguire una relazione nuova fra gli Stati Uniti e l’Unione europea. La potenza americana, a condizione che si converta dall’unilateralismo alla cooperazione, resta in effetti alla base della stabilità internazionale. L’estrema complessità del contesto dovrebbe interdire le parole d’ordine semplificatorie e inibire le mobilitazioni viscerali dell’opinione pubblica.

La lotta contro un avversario del genere si articola su più fronti: cooperazione politica, giudiziaria, militare; ma anche protezione civile. Ci imporrà condizioni e precauzioni che vanno in senso contrario alle nostre aspirazioni, al nostro stile di vita e alla fluidità dell’economia moderna, nel cui ambito i trasporti svolgono un ruolo essenziale. Pone soprattutto la questione delle libertà pubbliche: più precisamente, della loro salvaguardia. Ci obbliga a interrogarci: all’indomani di un attacco a una grande stazione di Parigi, sanguinoso come quello di Madrid, i deputati francesi respingerebbero un «Patriot Act» (la legge americana di emergenza) alla francese?

Ecco una questione fondamentale. Come contraccolpo agli attentati, l’Europa ridefinirà la sua concezione della libertà? Abbiamo visto negli Stati Uniti crescere la tentazione dell’isolamento, le tendenze xenofobe e l’ossessione della sicurezza. Nel mondo attuale c’è uno Stato che prefigura un avvenire possibile: Israele. Israele è uno Stato democratico, ma per difendersi si chiude e si rinchiude costruendo un muro. Questa soluzione troverebbe verosimilmente molti sostenitori anche in Francia. Fortunatamente il re di Spagna ha già risposto in anticipo e per conto di tutti i Paesi europei: «Dobbiamo combattere - ha detto - con i mezzi dello Stato di diritto». Luis Cebrian, fondatore del quotidiano madrileno «El Paìs», ha aggiunto che «contro i nemici della democrazia la sola risposta è più democrazia». In momenti così difficili, sintomatici del periodo in cui siamo entrati dopo l’11 settembre 2001, l’uno e l’altro hanno saputo incarnare la nostra identità comune, Insieme dovremo preservarla.

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