Da Corriere della Sera del 14/03/2004

E González evoca l'ombra di «manipolazioni»

Il monito del leader storico dei socialisti. «L'unità nazionale non si costruisce sul dramma»

di Aldo Cazzullo

MADRID - Alla fine è andato pure Felipe González, al corteo della scorsa notte. Anche se non sta bene: un'intossicazione alimentare ora lo trattiene a casa, nell'ultimo giorno prima del voto. «Sono sceso in piazza per responsabilità e solidarietà verso i cittadini», tiene a precisare. Per gli spagnoli, non per il governo. «L'unità di intenti, il rispetto reciproco è importante, ma è una conquista quotidiana, non un'emergenza imposta dal dramma». González si trattiene, ma si capisce bene che è indignato con Aznar. Lo era prima dell'11 marzo, figurarsi ora. «Ammetto che all'inizio pure io ho pensato all'Eta. Il fatto che le circostanze non corrispondessero alle abitudini dei terroristi baschi non significava che non fossero stati loro. Piuttosto mi pareva strana una simile dimostrazione di forza, considerato che l'Eta era stata smantellata», fa notare l'ex premier riferendosi agli ultimi anni del suo governo, quando Aznar da capo dell'opposizione lo accusava di eccessiva spregiudicatezza nella caccia ai terroristi.

González ha governato la Spagna per 14 anni vincendo quattro elezioni consecutive, come neanche Mitterrand (che per 4 anni coabitò con la destra). Dev'essergli rimasta qualche buona fonte. «All'inizio l'ipotesi di lavoro si concentrava all'80% sull'Eta - confida in una conversazione con un'emittente locale -. Ma già dopo 20, 25 ore si capiva che qualcosa non tornava. Ora c'è questa ombra che ogni minuto si fa più tremenda, più evidente. Ora il governo non può nascondere nulla, non può affidarsi a detenzioni-lampo, non può lasciare spazio a sospetti di manipolazione». La solidarietà nazionale alla spagnola è durata un giorno.

Tra i socialisti González è quello che parla più chiaro, ma neppure lui può dire esplicitamente quanto ormai pensa metà della Spagna: forse è stata davvero Al Qaeda, o comunque qualcosa di nuovo e terribile, nato dalla collaborazione tra estremisti baschi e islamici. Troppo forte è la commozione popolare per accusare apertamente il governo di aver nascosto la verità, troppo grande il rischio di essere accusati di strumentalizzare il massacro. Eppure, accanto al dolore, sono cresciuti le rabbia e il sospetto. In molte città, militanti socialisti e non solo si sono radunati davanti alle sedi del Partido popular, per chiedere «verità e pace». E' stata proprio la pressione del Psoe a indurre ieri sera il ministro dell'Interno Angel Acebes, l'uomo che giovedì aveva definito «squallidi depistaggi» le proteste di innocenza che venivano da Bilbao, a riconoscere che in effetti il governo potrebbe anche essersi sbagliato.

La pressione della piazza ha molto innervosito Mariano Rajoy: alle 9 e un quarto di sera il candidato popolare è apparso in tv per chiedere la fine della «manifestazione illegale» sotto la sede madrilena del suo partito. Venti minuti dopo è arrivata la replica dei socialisti, che si sono felicitati con le forze dell'ordine «per gli arresti» (di marocchini), e hanno lamentato di non potersi felicitare anche con il governo, «che dovrebbe dire sempre la verità». Forse è tardi per rovesciare la tendenza dei sondaggi e l'effetto emotivo della strage. La commozione degli spagnoli è tale da rendere difficili i distinguo, il nastrino nero del lutto è ovunque, sulle bandiere appese ai balconi, all'occhiello delle giacche, sulle statue della Vergine, al braccio dei calciatori, sui cartelloni pubblicitari. I marciapiedi di Madrid sono ingombri di fiammelle e cartelli dell'altra notte, della prima manifestazione di lutto europeo e globale, «Patrizia aveva solo sette mesi», «Restituiteci Juan». Eppure cresce nel Paese la diffidenza verso il governo uscente, si moltiplicano gli indizi che forse qualcosa non è andato come in democrazia sarebbe dovuto andare.

E' vero che i servizi segreti ormai danno per certa l'ipotesi islamica? E' vero (come scrive La Razon, giornale di destra) che Yehuda Hiss, capo dell'équipe di Gerusalemme specializzata nell'individuare i resti dei kamikaze, ha offerto aiuto senza ricevere risposta? Il candidato socialista José Luis Zapatero si muove con cautela, rilancia il suo piano per il ritiro dall'Iraq entro il 30 giugno (a meno di un intervento dell'Onu), vorrebbe spingersi oltre ma è frenato dalla sua stessa precipitazione di giovedì, quando ha attribuito d'istinto la responsabilità all'Eta. González il primo giorno ha taciuto, e ora si sente più libero di dire quel che pensa. «L'unità non può essere il frutto del dramma. E' qualcosa che viene prima. Non so dire cosa cambia ora nella politica spagnola. Non mi interessano gli scenari, mi colpisce di più la crudeltà con cui sono state spezzate tante vite».

Stemperata in parte l'emozione, González riprende il ragionamento del suo ultimo comizio, mercoledì notte a Torrelavega, alla periferia di Santander, la regione dov'è nato suo padre. Un discorso in cui l'ex primo ministro ha denunciato la rottura del «patto repubblicano attorno alla monarchia», la fine della «politica del consenso», del «territorio condiviso», delle «regole del gioco» che hanno prodotto il miracolo della Transizione alla democrazia. «Con i conservatori avevamo idee diverse, ma ci confrontavamo, e ci rispettavamo. Eravamo la prima generazione spagnola in due secoli a comportarci così. Ora le cose sono cambiate». González ritiene che il ritorno della «politica del rancore» sia responsabilità di Aznar, e sia avvenuto sui due terreni più delicati: la lotta al terrorismo e al separatismo, e la politica estera. Il leader storico del Psoe rimprovera al rivale di aver chiesto modifiche alla Costituzione quand'era in minoranza, per poi ergersi a suo difensore; di aver soffiato sul fuoco dei localismi, per poi presentarsi come garante dell'unità nazionale. Soprattutto, González non perdona ad Aznar di aver capovolto la sua politica estera: «Ha cambiato tutto in modo unilaterale e senza consenso. Ha diviso l'Europa, senza capire che Blair avrebbe ricucito in un attimo con Francia e Germania, lasciandoci isolati. E' andato contro la volontà del 90 per cento degli spagnoli. Ci ha trattati da antiamericani, quando noi socialisti abbiamo appoggiato l'America nella prima guerra del Golfo; ma allora c'era Bush padre, e c'era l'Onu. Aznar ha svenduto la dignità del mio Paese, e in cambio di cosa? Di una foto con Bush nel ranch? Di una pacca sulle spalle?

Rajoy ha accusato Zapatero in parlamento di essere "l'unico a non credere che in Iraq ci sono armi di distruzione di massa". Ma anche Rajoy sapeva che quelle armi in Iraq non c'erano. Aznar dice che Saddam è un dittatore sanguinario. Io dico che è sanguinario come ogni dittatore, compresi quelli che Aznar non nomina mai». La politica estera spagnola cambierebbe di nuovo, e Bush figlio perderebbe un alleato, se oggi vincessero i socialisti. Ipotesi che i sondaggi di una settimana fa escludevano, e che tuttora appare remota. Il fantasma di Franco cui allude González non si è dissolto, la geografia elettorale segue le linee di confine della guerra civile: il Pp è al 20% a Barcellona e nel Paìs Basco, al 60 a Burgos e a Salamanca. Il Psoe è il primo partito in tre sole regioni, quelle che più patirono la repressione franchista: la più ricca, la Catalogna; la più inquieta, il Paìs Basco appunto; e la più grande, l'Andalusia dove González è nato e che il generale Queipo de Llano governò come un feudo privato, raccontando alla radio il trattamento che i suoi mercenari marocchini riservavano alle donne repubblicane.

Sono passati più di sessant'anni, oggi la Spagna soffre tutta insieme, oltre un milione di catalani ha manifestato la sua solidarietà ai madrileni, i baschi sono stati splendidi. Stasera si saprà se l'intuizione di González è giusta, se davvero «non sono tutti contro il Pp, è il Pp contro tutti»; il che renderebbe difficile non solo formare un governo di coalizione, ma anche tenere insieme la Spagna, com'è riuscito a fare solo il dolore dell'11 marzo.

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