Da Corriere della Sera del 13/03/2004

I giorni di Aznar

L'addio amaro di Aznar alla sua Spagna ferita Gli ultimi due giorni del primo ministro. Da garante della fermezza e dell'unità del Paese a testimone del dolore

di Aldo Cazzullo

MADRID - Tra due milioni di spagnoli e tutti i simboli della Spagna eterna, i superstiti dei due fronti della guerra civile con le rispettive medaglie, preti in clergyman con crocefisso all'occhiello e preti in tonaca nera e crocefisso ligneo al collo, ragazzi dai capelli viola e allievi dell'Opus Dei in doppiopetto, José María Aznar vive nella notte di Madrid la sua consacrazione. L'uomo che ha fatto dei postfranchisti spagnoli una destra democratica, e dei cattolici europei una destra conservatrice, divide il lutto con un pezzo d'Europa, Raffarin, Berlusconi, Barroso, capi di governo come lui popolari ma non democristiani. Battezzato dall'Eta, che nel '95 attentò invano alla sua vita, Aznar esce di scena come garante della fermezza e dell'unità del Paese contro il terrore. Purché l'ombra della mezzaluna tardi ad allungarsi, purché il fantasma di Al Qaeda prenda corpo a urne chiuse, purché di baschi e non di islamici si parli; almeno sino a lunedì.

La reazione popolare lo rafforza, lo accompagna nel suo penultimo giorno di potere, ne sublima il personaggio che non ha il carisma e la simpatia di González ma è in sintonia primigenia con la Spagna fiera, chiusa, taciturna, fedele, baffuta che domani consegnerà al successore designato, il grigio Mariano Rajoy. Aznar si è dato una strategia all'apparenza semplice: far passare due giorni. Il delfino è rimasto nascosto, se non per i venti secondi di una vaga dichiarazione. Un passo indietro è rimasta pure la signora Aznar, Ana Botella, ambiziosa consigliera comunale di Madrid.

Ieri, meno 2 al voto, colazione alla Moncloa, dove il premier ha vissuto per otto anni e ha già preparato le scatole per il trasloco. Visita ai feriti in ospedale. Alle 10 e 30 Consiglio dei ministri: un richiamo al titolare dell'Interno Angel Acebes, un po' troppo zelante nell'escludere la pista islamica; qualche decisione immediata, 140 milioni di euro ai familiari delle vittime, permesso di soggiorno postumo agli stranieri morti. La linea è quella indicata dalla televisione pubblica, che per tutto il giorno ha fatto sfilare direttori di centri strategici, sottosegretari, esperti di intelligence: assecondare il riflesso condizionato che ha indotto tutti gli spagnoli, esclusi i baschi ma compresi i socialisti, a collegare le bombe all'Eta, non negare l'eventualità di un coinvolgimento di Al Qaeda ma lasciarlo sullo sfondo, affogarlo nel vortice delle possibilità, stemperarlo nei tempi lunghi dell'indagine che sarà meticolosa. «Non importa se è stata l'Eta o qualcun altro, è l'ora più triste dalla fine della guerra civile» «L'unico obiettivo è sconfiggere i terroristi, non tratteremo mai con loro».

La conferenza stampa è un dribbling tra le domande, un minuetto di parole chiave, trasparenza forza memoria. Poi, prima di scendere in piazza nell'oceano degli ombrelli, il conforto a porte chiuse dei premier di Francia, Italia e Portogallo, uomini che Aznar ha contribuito a portare nel Ppe, da cui potrebbe invece uscire l'unico vero democristiano giunto ieri a Madrid, Romano Prodi. Certo, se non sono stati i baschi ma gli islamici cambia tutto. In tal caso Aznar non sarebbe più l'inflessibile avversario dei separatisti, il baluardo contro la cedevolezza del Psoe (alleato a Barcellona dei catalani che hanno trattato con l'Eta una tregua), l'incarnazione appunto della Spagna eterna, ma un premier uscente che ha sbagliato i conti, un ex che abbandona la casa pericolante, uno statista mancato che, come si indigna González, ha «svenduto la dignità del Paese per una foto nel ranch con Bush e una pacca sulle spalle». Non andrà così o comunque non subito, troppo vicino il voto troppo grande la commozione.

La risposta degli spagnoli è impressionante, riflette le latitudini e i caratteri, Madrid sfila nella notte piovosa mentre le Canarie manifestano sotto il sole, a Siviglia si urla per sfogare la paura e farsi forza, a Bilbao si cammina zitti a capo chino. Il dolore è globale come il terrore, con il principe Felipe e i premier europei sfilano indiani e marocchini connazionali delle vittime. Il lutto è ovunque, pacifisti e Guardia Civíl portano un nastrino nero, gli ipermercati convertono frettolosamente gli spot in partecipazioni funebri, «El Corte Inglés si unisce al dolore dei familiari». Per tutto il giorno in ogni città fermate spontanee, dei ferrovieri, dei dipendenti comunali, dei baristi. «Non importa se è stata l' Eta o qualcun altro, comunque è il giorno più triste dalla fine della guerra civile» ha tagliato corto il vicepremier Rodrigo Rato, fedele alla linea anche se per la successione gli è stato preferito lo smunto Rajoy.

Aznar non ha dovuto far altro che calarsi nel dolore, scendere per strada, offrire la mano destra logorata dalla tendinite alle mani della folla piangente. Il terrorismo l'aveva tenuto a battesimo quand'era solo il capo dell'opposizione. Un'autobomba esplose al suo passaggio, l'Audi blindata resse il colpo, i chili di esplosivo erano solo 25 non 530 come l'altro ieri; Aznar uscì barcollando, il viso insanguinato, solo un taglio però. Il governo socialista gli aveva ridotto la scorta pochi giorni prima. González non andò a trovarlo in ospedale. Lui fu più abile, convocò i giornalisti, minimizzò, «io ce l'ho fatta, la Spagna ce la farà». Era il 19 aprile 1995; un mese dopo i popolari vincevano le amministrative, un anno dopo le politiche. Vinceranno anche domani, dicevano i sondaggi già prima dell'Undici Marzo.

In Spagna la destra parte da un vantaggio endemico, radicato nei pueblos della Vecchia Castiglia, nei porti della Galizia che da anni plebiscita un vecchio arnese del franchismo come Manuel Fraga Iribarne, nel centro antico di Toledo che ancora celebra il culto del colonnello Moscardó difensore dell'Alcazar assediato. La Spagna profonda è grata ad Aznar, nipote di un ambasciatore di Franco (di origini basche), figlio del direttore della radio nazionale, non solo perché le ha dato un'accorta gestione dell'economia e riforme concertate del mercato del lavoro e delle pensioni, ma anche perché le ha tolto la vergogna di aver vinto sul campo la guerra civile. Aznar non ha detto tutta la verità alla Spagna, non ha commemorato le vittime della repressione, non ha rinnegato se non nei fatti la sua infatuazione giovanile per il falangismo, quand'era uno studente di diritto che corteggiava la sua compagna di corso Ana; non ha riconosciuto quel che è sotto gli occhi di tutti, che il franchismo ha perduto. Aznar ha fatto qualcosa di meno e di più, ha invitato tutti a guardare avanti, a non voltarsi mai, a surrogare la teoria della libertà con la prassi del progresso e dell'alternanza democratica. Il magma ardente del terrorismo l'ha maneggiato con spregiudicatezza. Dall'opposizione chiedeva modifiche costituzionali, ieri si è inzuppato di pioggia reggendo uno striscione che diceva «Con la Costituzione».

Comunisti e baschi radicali lo accusano di aver mentito anche stavolta, sulla natura del massacro in stazione, i socialisti lo pensano ma non osano dirlo, non conviene. Lui è stato magistrale nel messaggio di giovedì, il suo vero passo d'addio, quando sullo sfondo della bandiera abbrunata ha ripetuto che «l'unico obiettivo non è trattare è sconfiggere il terrorismo», altro che negoziare tregue con l'Eta. In un Paese che ha avuto due premier in 22 anni, un tempo in cui l'Italia ne ha avuti undici, l'alternanza è un meccanismo complesso e solenne, procede ai ritmi lenti delle monarchie e delle mutazioni sociali; González passò due legislature a declinare, il barbuto e occhialuto Rajoy ha tutto il tempo. La mutazione che Aznar ha impresso al Ppe va nel senso in cui va la storia, il matrimonio della figlia all'Escorial con Berlusconi testimone e banchetto di aragoste è parso ai vecchi democristiani il funerale del popolarismo ma agli spagnoli affluenti è piaciuto: quel che resta della movida ha bussato al putridero dove maceravano i cadaveri dei Borbone, i colori della Transizione democratica hanno rianimato i marmi imperiali.

L'infanta di casa Aznar si chiama Ana come la madre e ha sposato Alejandro Agag, che del Ppe è stato il segretario. Pareva lui l'erede, invece ha saltato un turno, si è messo in affari, come ora farà Aznar, a soli 51 anni. «Il partito è la sua eredità materiale, la rinuncia volontaria al potere è l'eredità spirituale» scrive Federico Jiménez Losantos nel suo monumentale saggio El adiós de Aznar. «La vida es la vida y no sus resultados - ha scritto ieri Bernardo Atxaga, capofila degli scrittori baschi, per dire addio a chi è morto o è passato -, ni las coronas y medallas. La vida es la vida y es lo mas grande, el que la quita, lo quita todo»; la vita non si racchiude nei bilanci e nelle medaglie, la vita è quanto c'è di più grande; e chi se la porta via, porta via tutto.

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