Da Corriere della Sera del 03/03/2004

Oltre al predicatore accusati 4 magrebini e tre italiani. I sospetti: fornivano documenti falsi ai clandestini

Moschee, inchiesta su un altro imam

Parte da Londra l’indagine su un centro islamico napoletano. Una rete di presunti fondamentalisti

di Magdi Allam

Interpretando correttamente e letteralmente l’articolo 270 bis del Codice penale (Associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico), il gip di Napoli, Umberto Antico, ha fatto emergere, volente o nolente, la questione cruciale della compatibilità del nostro ordinamento giuridico con la realtà e la specificità del terrorismo islamico globalizzato. Le sue decisioni sollevano in modo forte e pressante la domanda: le nostri leggi sono adeguate a fronteggiare un terrorismo che è radicalmente diverso da quello conosciuto dall’Italia e dal mondo negli anni 70 e 80? Un terrorismo che si è imposto come la principale emergenza internazionale scatenando una guerra totale e a oltranza contro l’Occidente e i valori comuni della civiltà umana. Nel contestare con un’ordinanza del 9 gennaio 2004 la richiesta di arresto di 26 algerini, indagati per associazione sovversiva con finalità di terrorismo internazionale, il gip di Napoli è pervenuto alle conclusioni che non ci sarebbero prove dell’esistenza «sotto il profilo del fatto notorio» del Gspc (Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento), che Osama Bin Laden sarebbe uno dei tanti «predicatori», che affermare «singolarmente» di voler uccidere gli americani rientrerebbe nell’ambito della libertà di espressione.

Dando per scontato che non è in discussione la competenza e la buona fede del magistrato, l’attenzione dev’essere riposta su taluni elementi costitutivi dell’articolo 270 bis e del Codice penale di riferimento. Consideriamo la definizione di «reato». Nella sua ordinanza il gip di Napoli scrive: «Il reato di cui all’articolo 270 bis è un reato di pericolo presunto, per la cui configurabilità occorre, tuttavia, l’esistenza di una struttura organizzata, con un programma comune fra i partecipanti, finalizzato a sovvertire violentemente l’ordinamento dello Stato e accompagnato da progetti concreti e attuali di consumazione di atti di violenza. Ne consegue che la semplice idea eversiva, non accompagnata da propositi e attuali di violenza, non vale a realizzare il reato». Il pm di Milano Stefano Dambruoso conferma: «Se mi viene segnalata un’intercettazione ambientale di un estremista islamico che dice "Io mi vado a far esplodere a Tel Aviv", non si può fare nulla, non lo si può neanche mettere sotto accusa. A meno che non si trovi l’esplosivo con cui lui intenda farsi esplodere e il biglietto aereo che lo porterebbe a Tel Aviv». Più in generale aggiunge: «Per il nostro ordinamento giuridico non è un problema la presenza di centinaia di mujahidin, combattenti islamici, in Italia. Perché essere mujahidin non è reato. E’ considerato alla stregua di un’arma potenziale. Così come non è reato arruolare dei mujahidin in Italia. Il nostro ordinamento colpisce solo chi fa il mercenario per soldi, non per scelta ideologica. E’ la corresponsione di denaro il reato. E’ evidente che oggi bisogna colpire chi va a combattere all’estero per ragioni ideologiche e religiose. Possiamo permetterci che questi soggetti prosperino nel nostro Paese solo perché nel nostro ordinamento non sono considerati mercenari?».

Altra incongruenza riguarda la nozione di «fatto notorio» che, nel caso del gip di Napoli, ha portato alla negazione dell’esistenza del Gspc. Che è invece ufficialmente inserito nella lista nera dell’Onu e dell’Ue dei gruppi terroristici affiliati ad Al Qaeda, e del quale un altro tribunale italiano, quello di Milano, ha riconosciuto la presenza sul nostro territorio condannandone degli affiliati. Sottolineando l’imperativo di omogeneizzare e sprovincializzare l’ordinamento italiano, concordando un criterio unificante a livello nazionale e in sintonia con il resto del mondo nell’individuazione delle organizzazioni terroristiche.

Una seria difficoltà processuale concerne il principio del contraddittorio e il rifiuto delle prove di intelligence. Nel nostro ordinamento nessuno può essere condannato per delle dichiarazioni che non siano suscettibili di contraddittorio con l’interrogatorio dell’imputato o del teste da parte dell’avvocato difensore. Ciò può anche portare, sottolinea Dambruoso, al fatto che «noi abbiamo la prova d’intelligence che dall’Italia partono dei kamikaze per farsi esplodere in Iraq. Ma questa prova non ha nessun valore per il giudice italiano perché non può diventare una prova giuridica, data l’impossibilità di portare in aula l’agente che svolge un’attività segreta e che dispone di una informazione secretata».

Negli Stati Uniti dopo la tragedia dell’11 settembre è stato introdotto il Patriot Act. Di fatto è una legge che autorizza la polizia a compiere qualsiasi tipo di attività in chiave preventiva abbassando il diritto di difesa del soggetto. Ciò è in contrasto con il principio che siamo tutti innocenti fino alla dimostrazione della colpevolezza che è posta a carico di chi fa le indagini. Esiste una via mediana, un’alternativa che pur nel rispetto dei diritti della difesa consenta allo Stato e alla collettività di difendersi dalla guerra del terrorismo islamico globalizzato? L’ordinamento italiano denuncia delle crepe, probabilmente deve essere riformato. Certamente non possiamo permetterci il lusso di stare a braccia conserte o, peggio ancora, di perderci in sterili disquisizioni mentre il nemico si annida all’interno e imperversa all’esterno del nostro Paese.

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