Da Corriere della Sera del 12/02/2004
Il personaggio
Sergino, il ragioniere che odiava i sogni
di Gian Antonio Stella
Giorni di gran lavoro, per i cappellani carcerari. Dopo Calisto «Chierichetto» Tanzi, è entrata ieri in galera un'altra anima candida. «Lei crede in Dio?», gli chiese un giorno Maria Latella. Sergio Cragnotti, gli occhi liquorosi come santa Teresa del Bambin Gesù, rispose: «Sì. E la domenica vado a messa, con mia moglie e i miei ragazzi. Io vivo in un mondo spietato e molto materialistico, se ogni tanto non trovo un momento per rinchiudermi in me stesso... Stare in chiesa è un conforto».
Saperlo in cella sarà ora di conforto a migliaia di poveretti derubati d’ogni risparmio? Forse no. Certo è che mai manette erano state tanto attese. Anche per l'assoluta mancanza da parte del nostro, in questi mesi, di ogni cenno di mea culpa.
Mai piaciuto chiedere scusa al «Kragno», come lo chiamavano ai tempi in cui, capelli pettinatissimi e bottoni stretti in vita come un manichino deluxe, dava la scalata a tutto. Troppo sicuro di se stesso, troppo altezzoso, troppo freddo: «Nelle mie scelte il cuore conta meno del venti per cento. Per avere successo bisogna stare fuori dalle passioni. L’emotività porta al disequilibrio. Sogno poco. Sognare ruba energie». Anche Gino e Maria e Arturo e altri 40 mila sventurati non sognavano granché: bastava loro avere quel gruzzoletto messo da parte risparmiando sulle zucchine o lo zucchero. «Quattro soldi», per usare le parole di Antonio Fazio, su cui contare in caso di bisogno. I fratelli Salvatore e Nuccia di Carlentini, muratore e casalinga, avevano 83 milioni quando si fecero infinocchiare dal direttore della Banca Agricola Popolare di Ragusa: «Comprate bond Cirio, sono sicuri come i libretti di deposito e rendono assai di più!». «Assai?». «Assai!». Portati dalla perdita di tutto al «disequilibrio», mandano oggi all'ex patròn della Lazio pensieri poco cordiali.
Diplomato in ragioneria, figlio della piccola borghesia romana di Porta Metronia, il finanziere che nei giorni di splendore arrivò a dire che Berlusconi è un esponente del «vecchio mondo del calcio», cominciò come contabile alla Bomprini Parodi Delfino negli anni in cui ci lavoravano, a livelli più alti, Cesare Romiti e Mario Schimberni. Era sveglio, ambizioso, deciso: breve gavetta e nel 1969 già decidevano di puntare su di lui mandandolo a seguire gli affari della Cimento Santa Rita, in Brasile.
Tappa fondamentale. Non solo ne ricavò il soprannome di «Sergino», ma si mise in luce al punto di essere adocchiato da Serafino Ferruzzi, che gli affidò l'Agro Pecuaria Magno, una società che aveva tanta terra quanta uno Stato: 350 mila ettari.
Pochi anni di lavoro forsennato e fatturati sempre più alti, e già il nostro era a Parigi a trattare per conto del mitico Serafino l'acquisto della multinazionale alimentare Beghin Say. Portò a termine l'incarico, dicevano le agiografie ai tempi dei trionfi, scambiando le targhette dei posti a tavola per stare accanto al banchiere Jean Marc Vernes. Certo è che poco dopo veniva scelto da Raul Gardini come suo vicario: amministratore delegato del comparto agricolo, poi vicepresidente di Montedison, poi amministratore delegato Enimont. Una carriera spettacolare chiusa con l'uscita dal gruppo non molto prima che crollasse. Un'uscita serena, dirà lui elogiando per anni le virtù dell'«amico Raul» che «aveva capito per primo la globalizzazione».
Un'uscita segnata da ombre, diranno i nemici. Al punto che nel 2001, in un momento di tumulti, un'anonima mano laziale arriverà a scrivere sui muri di Roma: «A Cragno', si te servono quattrini / puoi ammazza' n'artro Gardini».
Certo è che, uscito dal gruppo di Ravenna dopo aver fatto sempre il dipendente e aver messo a segno qualche colpaccio come la vendita della Standa a Berlusconi per 881 miliardi di allora, «Sergino» si affacciò improvvisamente nel mondo dell'alta finanza con una banca d'affari, la «Cragnotti & Partners», che rastrellava una società dietro l'altra. Ma dove aveva trovato tutti quei soldi: che fosse solo un prestanome? «I 600 miliardi con cui ho iniziato», spiegò, «mi sono stati forniti dalla Banca di Roma, dal Banco di Napoli, dal Montepaschi, anche tramite la controllata Centrofinanziaria, dalla Banca popolare di Milano, dalla Swiss bank corporation, dalla francese Credit Lyonnais, dai Ferruzzi, da Gardini e da vari investitori brasiliani». Vero? Falso? Boh... Enrico Cuccia borbottò: «E' una fattucchiera».
Fatto sta che gli anni '90, per Cragnotti, sarebbero stati una spericolata scalata al cielo con l'acquisizione, dall'Italia al Sudafrica e al Brasile, di un mucchio di marchi: la Cirio, la De Rica, la Bompril, la Centrale del latte di Roma, la Royal Food, la Polenghi, l'Aia, la Del Monte... Una scalata accompagnata dall'investimento sui figli, promossi uno dopo l'altro in quel giocattolo di famiglia che era la Lazio: ed ecco Elisabetta vicepresidente, Massimo direttore area tecnica, Andrea manager... Unica esclusa dai «regalini» la moglie Flora: «Lei i regali se li fa da sola».
Peccato solo per le grane: il coinvolgimento nel crac Enimont (dal quale uscì parlando di dieci miliardi di tangenti al Caf e patteggiando pochi mesi di reclusione), l'accusa di «insider trading» da parte delle autorità canadesi che gli vietarono di assumere qualunque carica nell'Ontario, le polemiche sul trattamento barbarico degli operai della Del Monte in Kenia denunciato in televisione da Milena Gabanelli, la condanna patteggiata a un mese di carcere per irregolarità varie nella costruzione del centro sportivo di Formello, la bastonata dell'ente di controllo brasiliano (una multa di 30 milioni di euro: la più alta nella storia) e il rinvio a giudizio per il passaporto falso procurato al calciatore Juan Sebastian Veron.
«All'estero chi ha fatto cose così è stato colpito in ciò che ha di più caro: la classifica», disse allora Fabio Capello. «Kragno» lo bacchettò come un padrone delle ferriere: «L'allenatore della Roma è solo un dipendente del nostro circo. Si faccia gli affari suoi». Un invito volgare al quale, stando alle inchieste, non si è mai sottratto lui: sempre fatti gli affari suoi. Basti ricordare ciò che era scritto nel prospetto che, spiegò quattro anni fa Espansione , accompagnava il collocamento in Borsa della Lazio: «Cragnotti è coinvolto in diversi procedimenti giudiziari concernenti ipotesi di falso in bilancio, falso in comunicazioni sociali e irregolarità fiscali». Quanto alla Lazio e ai suoi guai finanziari, resta immortale una frase ricordata in un ritratto da Maurizio Crosetti: «Con il pallone non ci si rimette. E' una gallina dalle uova d'oro. Bisogna solo che covi bene». Cos'abbia covato lui, andando a messa ogni domenica per sottrarsi al «mondo spietato e molto materialistico», è sotto gli occhi di tutti.
Saperlo in cella sarà ora di conforto a migliaia di poveretti derubati d’ogni risparmio? Forse no. Certo è che mai manette erano state tanto attese. Anche per l'assoluta mancanza da parte del nostro, in questi mesi, di ogni cenno di mea culpa.
Mai piaciuto chiedere scusa al «Kragno», come lo chiamavano ai tempi in cui, capelli pettinatissimi e bottoni stretti in vita come un manichino deluxe, dava la scalata a tutto. Troppo sicuro di se stesso, troppo altezzoso, troppo freddo: «Nelle mie scelte il cuore conta meno del venti per cento. Per avere successo bisogna stare fuori dalle passioni. L’emotività porta al disequilibrio. Sogno poco. Sognare ruba energie». Anche Gino e Maria e Arturo e altri 40 mila sventurati non sognavano granché: bastava loro avere quel gruzzoletto messo da parte risparmiando sulle zucchine o lo zucchero. «Quattro soldi», per usare le parole di Antonio Fazio, su cui contare in caso di bisogno. I fratelli Salvatore e Nuccia di Carlentini, muratore e casalinga, avevano 83 milioni quando si fecero infinocchiare dal direttore della Banca Agricola Popolare di Ragusa: «Comprate bond Cirio, sono sicuri come i libretti di deposito e rendono assai di più!». «Assai?». «Assai!». Portati dalla perdita di tutto al «disequilibrio», mandano oggi all'ex patròn della Lazio pensieri poco cordiali.
Diplomato in ragioneria, figlio della piccola borghesia romana di Porta Metronia, il finanziere che nei giorni di splendore arrivò a dire che Berlusconi è un esponente del «vecchio mondo del calcio», cominciò come contabile alla Bomprini Parodi Delfino negli anni in cui ci lavoravano, a livelli più alti, Cesare Romiti e Mario Schimberni. Era sveglio, ambizioso, deciso: breve gavetta e nel 1969 già decidevano di puntare su di lui mandandolo a seguire gli affari della Cimento Santa Rita, in Brasile.
Tappa fondamentale. Non solo ne ricavò il soprannome di «Sergino», ma si mise in luce al punto di essere adocchiato da Serafino Ferruzzi, che gli affidò l'Agro Pecuaria Magno, una società che aveva tanta terra quanta uno Stato: 350 mila ettari.
Pochi anni di lavoro forsennato e fatturati sempre più alti, e già il nostro era a Parigi a trattare per conto del mitico Serafino l'acquisto della multinazionale alimentare Beghin Say. Portò a termine l'incarico, dicevano le agiografie ai tempi dei trionfi, scambiando le targhette dei posti a tavola per stare accanto al banchiere Jean Marc Vernes. Certo è che poco dopo veniva scelto da Raul Gardini come suo vicario: amministratore delegato del comparto agricolo, poi vicepresidente di Montedison, poi amministratore delegato Enimont. Una carriera spettacolare chiusa con l'uscita dal gruppo non molto prima che crollasse. Un'uscita serena, dirà lui elogiando per anni le virtù dell'«amico Raul» che «aveva capito per primo la globalizzazione».
Un'uscita segnata da ombre, diranno i nemici. Al punto che nel 2001, in un momento di tumulti, un'anonima mano laziale arriverà a scrivere sui muri di Roma: «A Cragno', si te servono quattrini / puoi ammazza' n'artro Gardini».
Certo è che, uscito dal gruppo di Ravenna dopo aver fatto sempre il dipendente e aver messo a segno qualche colpaccio come la vendita della Standa a Berlusconi per 881 miliardi di allora, «Sergino» si affacciò improvvisamente nel mondo dell'alta finanza con una banca d'affari, la «Cragnotti & Partners», che rastrellava una società dietro l'altra. Ma dove aveva trovato tutti quei soldi: che fosse solo un prestanome? «I 600 miliardi con cui ho iniziato», spiegò, «mi sono stati forniti dalla Banca di Roma, dal Banco di Napoli, dal Montepaschi, anche tramite la controllata Centrofinanziaria, dalla Banca popolare di Milano, dalla Swiss bank corporation, dalla francese Credit Lyonnais, dai Ferruzzi, da Gardini e da vari investitori brasiliani». Vero? Falso? Boh... Enrico Cuccia borbottò: «E' una fattucchiera».
Fatto sta che gli anni '90, per Cragnotti, sarebbero stati una spericolata scalata al cielo con l'acquisizione, dall'Italia al Sudafrica e al Brasile, di un mucchio di marchi: la Cirio, la De Rica, la Bompril, la Centrale del latte di Roma, la Royal Food, la Polenghi, l'Aia, la Del Monte... Una scalata accompagnata dall'investimento sui figli, promossi uno dopo l'altro in quel giocattolo di famiglia che era la Lazio: ed ecco Elisabetta vicepresidente, Massimo direttore area tecnica, Andrea manager... Unica esclusa dai «regalini» la moglie Flora: «Lei i regali se li fa da sola».
Peccato solo per le grane: il coinvolgimento nel crac Enimont (dal quale uscì parlando di dieci miliardi di tangenti al Caf e patteggiando pochi mesi di reclusione), l'accusa di «insider trading» da parte delle autorità canadesi che gli vietarono di assumere qualunque carica nell'Ontario, le polemiche sul trattamento barbarico degli operai della Del Monte in Kenia denunciato in televisione da Milena Gabanelli, la condanna patteggiata a un mese di carcere per irregolarità varie nella costruzione del centro sportivo di Formello, la bastonata dell'ente di controllo brasiliano (una multa di 30 milioni di euro: la più alta nella storia) e il rinvio a giudizio per il passaporto falso procurato al calciatore Juan Sebastian Veron.
«All'estero chi ha fatto cose così è stato colpito in ciò che ha di più caro: la classifica», disse allora Fabio Capello. «Kragno» lo bacchettò come un padrone delle ferriere: «L'allenatore della Roma è solo un dipendente del nostro circo. Si faccia gli affari suoi». Un invito volgare al quale, stando alle inchieste, non si è mai sottratto lui: sempre fatti gli affari suoi. Basti ricordare ciò che era scritto nel prospetto che, spiegò quattro anni fa Espansione , accompagnava il collocamento in Borsa della Lazio: «Cragnotti è coinvolto in diversi procedimenti giudiziari concernenti ipotesi di falso in bilancio, falso in comunicazioni sociali e irregolarità fiscali». Quanto alla Lazio e ai suoi guai finanziari, resta immortale una frase ricordata in un ritratto da Maurizio Crosetti: «Con il pallone non ci si rimette. E' una gallina dalle uova d'oro. Bisogna solo che covi bene». Cos'abbia covato lui, andando a messa ogni domenica per sottrarsi al «mondo spietato e molto materialistico», è sotto gli occhi di tutti.
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