Da Famiglia cristiana del 18/01/2004
Originale su http://www.sanpaolo.org/fc/0403fc/0403fc82.htm

Afghanistan. Viaggio alla frontiera con l’Iran, dove si traffica ogni genere di merce.

Vite di contrabbando

Provincia di Nimruz: chi si arricchisce trasportando droga e chi vive in miseria. Ma qualcuno costruisce il futuro. Legale.

di Alberto Chiara

Zaranj (Afghanistan) - Mohammed Kazim sorseggia un tè caldo seduto per terra, sul tappeto consumato della casermetta. Gli fanno corona alcuni kalashnikov appoggiati alle pareti. Il termometro, che d’estate segna anche 55 gradi, ora danza attorno allo zero e dunque un po’ di tepore non guasta. La ridotta guarnigione afghana di frontiera appare rilassata. Per quel che si vede, è composta da cinque militari in tutto, comandante incluso.

Presidiano Bazar-e-Mushtarak, un grumo di case di fango che fronteggia Milak. Di qua è Afghanistan. Di là è Iran. Di qua è la provincia di Nimruz (circa 200.000 abitanti), il cui capoluogo si chiama Zaranj. Di là è la provincia del Sistan-Balucistan, che vanta una popolazione di circa due milioni di persone e la cui città principale è Zahedan. In realtà, è Balucistan – o Belucistan che dir si voglia – sia di qua sia di là.

Si tratta, infatti, di una regione abbastanza omogenea che parte più o meno all’altezza del 32° parallelo, scende verso il Golfo di Oman ed è divisa tra l’Afghanistan meridionale, l’Iran orientale e il Pakistan occidentale. Le frontiere, tracciate con il righello sulle carte, non sono sentite come tali dalla gente. Kabul e Teheran sono distanti, e non soltanto per quei capricci della geografia che si traducono in ore e ore di volo.

Kazim è un soldato dall’aspetto ben poco marziale. Dice di avere 42 anni e di essere originario del Nord. «Ho abbandonato la regione di Mazar al Sharif per trasferirmi a Dubai, lontano dalla guerra civile che ha ucciso nove miei parenti», racconta. «Negli Emirati Arabi Uniti sono rimasto cinque anni. Sono tornato in Afghanistan nel 2002. Il mio Paese aveva voltato pagina. Ora, qui da noi, la vera rivoluzione è la pace. Ci credo. E cerco di servirla anche con questa divisa addosso».

Se la scommessa politica è assicurare all’Afghanistan democrazia e diritto, indispensabili premesse per la pacificazione, quella economica è affrancare il Paese dal narcotraffico. Il 2003 è stato un anno record per la produzione di oppio, spesso trasformato in eroina ancor prima di varcare le permeabili e corrotte frontiere dell’Afghanistan, alla volta dell’Europa. Di tutto questo, però, Mohammed Kazim non parla.



TUTTO È TRANQUILLO. ANCHE TROPPO

Fuori dal posto di guardia il tramonto incendia di colori il confine. Un camion avanza solitario, seminascosto dalla polvere: non c’è traccia di asfalto da queste parti. Quindi, ecco un paio di asinelli carichi di legname. Infine, il passo lento e stanco, sfuma all’orizzonte un gruppo di lavoratori che torna a casa. Tutto appare tranquillo. Fin troppo.

I contrabbandieri in realtà si stanno preparando. Agiscono di notte. Trasportano merci d’ogni genere: bombole di gas, vestiti, rotoli di stoffa, lampadine, sapone. Abbiamo visto la roba accatastata con cura diversi chilometri più a nord, a Mir Ahmad Khan, un villaggio cresciuto all’ombra di un’oasi che lo ripara dallo Shamal, l’implacabile vento del deserto. «Basta pagare chi di dovere e il gioco è fatto; il commercio da illegale diventa legale», spiega Ehsanullah, un ingegnere dall’occhio sveglio.

Poi c’è la droga. Quella è trattata a parte. Può essere trasportata su singole jeep o su singoli camion, ma per lo più viaggia su convogli composti da numerosi fuoristrada che seguono piste desertiche e sono scortati da altri fuoristrada dotati di armamento pesante. Il traffico rende, eccome. In una giornata di lavoro, un afghano della provincia di Nimruz prende mediamente un euro, un euro e mezzo. Se però si occupa del trasporto di oppio e di eroina, riesce a raggranellare anche otto euro al giorno.

L’Onu ha lanciato l’allarme. «L’Afghanistan è a un crocevia: o si adottano subito significative misure di contrasto per debellare il narcotraffico, o il cancro della droga continuerà a crescere. La metastasi moltiplicherà corruzione, violenza e terrorismo», ha dichiarato Antonio Maria Costa, direttore esecutivo dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (Unodc).

Nel 2003, gli ettari destinati alla coltivazione del papavero da oppio sono aumentati dell’8 per cento, passando da 74.000 (dati 2002) a 80.000. I rapporti redatti dall’Unodc registrano forti cali nelle province meridionali di Helmand e di Kandahar, ma un vistoso incremento (55 per cento in più) in quella settentrionale del Badakhshan. Su 32 province afghane, ben 28 risultano dedite alla coltivazione di papaveri da oppio. La produzione complessiva è passata dalle 3.400 tonnellate del 2002 alle 3.600 dello scorso anno. Anche il numero delle persone coinvolte aumenta e, stando a stime attendibili, si attesta sui due milioni. Il reddito complessivo dei coltivatori, sommato a quello dei trafficanti, corrisponde a più del 50 per cento del Prodotto interno lordo del Paese.

Costa ha elogiato gli sforzi dell’amministrazione afghana nella lotta alla droga. In particolare, ha lodato il bando del presidente Hamid Karzai contro la coltivazione e il traffico di oppio, l’istituzione della Direzione nazionale antidroga, l’adozione di un piano decennale anti-narcotici, il varo di nuove norme sulla prevenzione, giacché anche in Afghanistan il problema dei tossicodipendenti sta assumendo dimensioni rilevanti.

«Sono misure importanti, ma occorre fare di più», ha aggiunto Costa. «I trafficanti ricavano profitti enormi. E con loro anche i terroristi. Il gioco di potere che ne risulta rappresenta una minaccia per la pace e la sicurezza dell’Afghanistan e dei Paesi vicini».

La provincia di Nimruz sembrava essere solo una delle vie di transito. Le ultime informazioni, tuttavia, parlano di qualche coltivazione apparsa lungo le sponde del fiume Khash Rud. Sta di fatto che a Zaranj, il capoluogo privo di acquedotto, sistema fognario ed energia elettrica, alcuni negozi espongono telefoni satellitari che costano 700 dollari l’uno e le autoradio, vendute in media a 32 dollari ciascuna, hanno un discreto mercato. Segno evidente che le tasche non sono poi così vuote.



NON TUTTI SI ARRICCHISCONO

Ovviamente non tutti s’arricchiscono con il contrabbando o con il narcotraffico a Zaranj e dintorni. Molte persone trascinano esistenze segnate da povertà e da stenti. C’è chi si sforza di migliorare le loro condizioni di vita, rimboccandosi le maniche. Claudio Finizio, 34 anni, s’è laureato in Ingegneria nucleare al Politecnico di Torino; obiettore di coscienza, ha svolto il servizio civile nella Caritas; ha maturato una buona esperienza di cooperazione allo sviluppo in Africa, lavorando quattro anni in Tanzania: da mesi opera a Zaranj, coordinando i progetti della Coopi, una delle più grandi e importanti Organizzazioni non governative (Ong) italiane.

«Nella provincia di Nimruz», spiega Finizio, «grazie ad appositi finanziamenti comunitari, più precisamente grazie a un contributo di 250.000 euro stanziato dall’Ufficio per gli aiuti umanitari della Commissione europea (Echo), la Coopi ha scavato 85 pozzi che assicurano acqua potabile a molti villaggi. Per tentare di arginare il più possibile il diffondersi di malattie, abbiamo poi costruito 45 toilette pubbliche e organizzato diversi corsi di formazione in cui donne debitamente istruite hanno insegnato ad altre donne le più elementari norme igienico-sanitarie».

Seguire Finizio in uno dei suoi viaggi è come compiere un tuffo all’indietro nella storia. Su una jeep percorriamo piste sabbiose, attraversiamo il deserto (tiepido di giorno, gelido di notte), passiamo da un villaggio fatto d’argilla a un altro. Ovunque, bambini scalzi dai vestiti tradizionali, uomini che a trent’anni paiono irrimediabilmente vecchi, donne provate dalla fatica e dalle gravidanze. Tutti pronti, in ogni caso, a condividere quel poco che hanno.

«La provincia di Nimruz paga anche le conseguenze di una prolungata siccità e del crescente processo di desertificazione», sottolinea Finizio. «I fiumi Helmand e Khash Rud sono degni di tale nome solo pochi mesi all’anno. Per il resto, sono strisce di terra secca. Questa zona era uno dei granai dell’Afghanistan. Oggi non lo è più. Sono inoltre scomparse ben 240 specie di animali».

Oltre a Coopi, nell’area operano altre Ong straniere, tra cui Médecins du monde e l’inglese Ockenden international. «Insieme con alcune Ong afghane ci impegniamo su diversi fronti: sanità, istruzione, infrastrutture, economia di base», conclude Finizio. «Tentiamo di creare le condizioni per uno sviluppo sostenibile e legale». In alternativa all’oppio.

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